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Pupi Avati, all’anagrafe Giuseppe Avati, nasce a Bologna il 3 novembre 1938, è un regista, sceneggiatore, produttore cinematografico e scrittore italiano. È stato definito dai critici un vero maestro, dotato di grandi capacità ecclettiche e intellettuali, che gli hanno permesso di affacciarsi nel panorama del cinema mondiale dominandone le scene.

Maestro, ci potrebbe raccontare come sia riuscito a passare dalla musica al cinema?

Dalla musica al cinema vi è un passaggio nella mia vita che riguarda i lavori più normali. La Musica rappresentava un’eccezione in quanto suonavo musica jazz, poi, purtroppo, mi sono reso conto che il mio talento non era sufficiente per diventare un grande jazzista. Per esempio dal confronto con Lucio Dalla decisi che non era il caso di proseguire, anche perché i miei risultati non erano eclatanti, e allora mi misi a fare un lavoro normale e cioè il dirigente di una società di surgelati. Poi, mi sposai, ebbi due figli e dopo 4 anni di lavoro alla findus, vidi un film speciale di Fellini, denominato “Otto e mezzo”. Questo film fece nascere in me il sogno del cinema. In “Otto e mezzo” scopri cosa fosse la figura del regista. Mi sono innamorato del cinema, erano anni speciali, era il ‘68. Un tempo in cui ognuno poteva immaginare di poter fare la qualsiasi cosa. Cosi con un gruppo di amici, a Bologna, ci fecimo finanziare da un mecenate locale i primi due film che furono una catastrofe, però ci fecero entrare nel mondo del cinema.

Quali sono stati gli anni peggiori della sua carriera lavorativa?

Sono stati quelli tra questi due film e la ripresa. Sono stati anni in cui sono dovuto scappare da Bologna perché tutti mi consideravano un fallito in quanto avevo iniziato a fare una cosa che tutti consideravano assai strana e quindi non me la perdonarono e poi il gruppo si era sciolto. Da lì decisi di venire a Roma e ciò senza una lira, aiutato da mia madre, con mia moglie e due bambini. Sono stati questi gli anni più difficili della mia vita e ciò sino a quando non incontrai Ugo Tognazzi, che lesse per sbaglio il copione della mia opera denominata “La “Marzurka del barone della santa e del fico fiorone” e da lì iniziai piano piano a fare qualcosa.

Crede in Dio?

Sono convinto che nella vita ci siano tante ingiustizie per le quali nessun tribunale, nessuna organizzazione politica e sociale, possa ristabilire i giusti equilibri e dare loro il dovuto risarcimento. Ho 80 anni e ho visto persone nascere e morire nella sofferenza. Davanti a questa triste e ingiusta realtà, un Dio deve esistere, è indispensabile e ciò per dare un senso alla vita di queste persone. Per questo voglio credere in un Dio!

Cos’è per lei il diavolo?

Il diavolo è una figura anacronistica che è uscita dal lessico comune. Infatti, neppure la chiesa la utilizza più. Il diavolo è il male per i male. Noi tutti abbiamo una componente positiva e una negativa, in tutti noi vi è l’invidia, la cattiveria e questi sono aspetti umani, mentre il male per il male, quello senza alcune fine, quello solo per lo scopo di fare il male gratuitamente, è il vero male.

Ha da poco realizzato un film horror denominato “Il signor diavolo”, che sta riscuotendo un successo notevole. Ci potrebbe raccontare della nascita di questo film?

Questo film assomiglia molto a quello che ho “visto” nella mia vita. Sono una persona anziana, che è arrivata a 80 anni e nella vita vi è un momento in cui ci si allontana sempre di più dalla propria nascita, si cresce, si guarda al futuro, quindi ci si evolve. Poi vi è un momento in cui tutto cambia. Nella cultura contadina si chiama “scollinamento”, e cioè incomincia una via del ritorno, un ritornare a quello che siamo stati e ciò avviene nella seconda parte della propria vita. Vi è il desiderio di ritornare a quel ragazzo che sei stato. In questi ultimi anni mi è tornata la voglia di fare un tipo di cinema che avevo fatto all’inizio, ritornare in quei luoghi ove avevo fatto i miei primi film, magari con gli stessi attori, questo è la dimostrazione che la vita è un volere ritornare indietro e io sono ritornato quel ragazzo che voleva fare il cinema, che voleva raccontare le storie dell’orrore che da piccolo ci venivano raccontate.

È da tanto tempo che prova attrazione per il genere horror?

Da quando sono stato educato alla cultura contadina. La cultura contadina prevede la favola contadina che è un racconto di paura, di cose spaventevoli e io sono cresciuto in quegli anni, con questo tipo di suggestione che era fantastica. Erano racconti che venivano fatti in antichi casolari e la paura è qualcosa che ti spaventa, ma nel medesimo tempo ti seduce. Per esempio la gente paga otto euro per venire a vedere un film horror, la gente paga per essere spaventata, paga per provare questa forte emozione.

Dopo il signor diavolo cosa pensa di mettere in cantiere?

Sto cercando di chiudere da molto tempo un film sulla vita di Dante Alighieri raccontata dal Boccaccio. È un progetto che nel 2021-, celebrazione dei 700 anni dalla morte del più grande poeta del mondo-, vorrei realizzare.

A conclusione di questa meravigliosa intervista, vi è qualche messaggio che vorrebbe lanciare allo stuolo di ammiratori che da tanti anni la seguono con interesse e dedizione?

Si, voglio esprimere la mia riconoscenza a tutti coloro che sono venuti a vedere il mio film, ma specialmente ai giovani che lo hanno apprezzato lasciando commenti sul web. Ciò mi ha dato tanta energia e gratificazione.

a cura di Salvatore Bucolo