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Terzo e ultimo appuntamento in Sicilia, al Vittorio Emanuele di Messina, con il Delitto e castigo adattato per il teatro da Sergio Rubini e Carla Cavalluzzi.

È un’impresa titanica misurarsi con il tentativo della riduzione teatrale di un’opera dostoevskijana: il rischio di sacrificare sull’altare dei tempi teatrali ristretti una narrazione che nella prosa si presenta estremamente dilatata, è altissimo. Nella scheda di presentazione sull’adattamento teatrale a cura di Sergio Rubini e Carla Cavalluzzi, si introduceva un lavoro costruito sull’interpretazione del teorico della letteratura Michail Bachtin, con una particolare attenzione alla dimensione psicologica del dramma.
La potente recitazione di Sergio Rubini e Luigi Lo Cascio ha reso in maniera fedele la visione polifonica bacthiniana del romanzo Delitto e castigo, che vuole i personaggi portatori di idee assolutamente autonome rispetto al pensiero personale dello scrittore. Così come è rimasta fedelissima al taglio psicologico del dissidio interiore di Raskolnikov, concentrandosi sul tòpos del doppio, caro a Dostoevskij soprattutto in opere minori come Il sosia.

Ròdion Raskolnikov sconvolto da un’idea suprema, l’omicidio come dovere sociale, si ritrova travolto dai sensi di colpa che sfociano in continui deliri onirici e non; in una febbre cerebrale -come la chiama Dostoevskij- che lo tormenta fino allo sfinimento. È una narrazione a ritmo serrato che si serve di una potente scenografia, di suoni e luci sapientemente studiati -fondamentali tanto quanto le interpretazioni degli attori; sanno essere disturbanti in sintonia con i deliri di Raskolnikov- e che lambisce le questioni di capitale importanza in tutte le opere dostoevskijane: l’ambiente che divora l’uomo e il sottosuolo.

Lambisce, si diceva, fino al punto in cui il dramma psicologico va oltre, assumendo i contorni del dramma nichilista e diventando cifra di un’umanità ferita nel profondo. Le precise scelte di regia certamente hanno comportato sacrifici. Su tutti quello che si è fatto avvertire maggiormente riguarda la figura della giovane prostituta Sonja, interpretata da Francesca Pasquini.

Contraltare di Raskolnikov, Sonja è tutto quello che Rodiòn non è: è la grazia dell’innocenza che ha la pretesa cristiana di mantenersi tale a dispetto di un ambiente di miseria materiale ed esistenziale che vuole inghiottirla, divorarla senza mai riuscirci. È la via per la salvezza attraverso cui Raskolnikov passa dalla dimensione moralistica del senso di colpa, a quella morale della confessione e dell’espiazione. Sul piano scenografico  certi dettagli lasciano intuire, demandando allo spettatore il compito di coglierli con attenzione, i richiami ad una matrice anche religiosa del dramma: la presenza fissa di un’icona sacra russa sullo sfondo, illuminata tenuemente fino a quando, al culmine  della disperazione di Raskolnikov, non lo è  più: segno di qualcosa di più profondo che va oltre la rappresentazione.

Pur con i sacrifici dettati dall’esigenza di razionalizzare la narrazione e di dare un taglio prettamente psicologico, il lavoro di Rubini, Lo Cascio , Salemi, Pasquini e G.U.P Alcaro è estremamente coerente con le intenzioni di cui si è fatto subito portatore, riuscendo nell’impresa di non tradirle mai.

 

Livia Di Vona