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Indiscusso successo a Barcellona Pozzo di Gotto per “Il Calapranzi”, spettacolo teatrale adattato sull’opera del drammaturgo inglese. La regia è stata curata da Michelangelo Maria Zanghì, direttore artistico di Scenanuda. 

di Giulia Carmen Fasolo

Ci sono due killer. Ma non due qualsiasi. Uno appare più autoritario, ha risposte secche e sorde; l’altro sembra sagomato su un profilo più basso, ma fa domande, si interroga, riflette. L’arma non è mai citata. E il giornale che lo spavaldo ha in mano è un paravento per nascondersi.
Ma i due hanno un’identità? O anch’essa sembra camuffarsi come all’inizio capita alla lingua parlata, tanto da divenire il pretesto per generare il primo conflitto?
Si tratta di due soggetti che aspettano qualcuno che forse non arriverà mai. Questo simil-Godot è atteso perché deve dare istruzioni sulla prossima vittima. Ma quando si paleserà? Ed esiste davvero?
I nostri due personaggi convivono temporaneamente e senza poter uscire in uno spazio ristretto: il sotto bottega di un ristorante in disuso, spoglio, desolato, privo di ogni necessità. Vivono in una delle tante strettoie della vita che si ritrovano a condividere, scambiandosi le proprie reciproche ossessioni e violenze verbali.
Mentre esercitano il solito copione di come va ammazzata la vittima, la loro attesa si mescola a finte richieste di cibo che arrivano improvvisamente da un calapranzi.
Quest’ultimo è il terzo personaggio, o forse il principale, capace contemporaneamente di spezzare l’assurdità interna e di collegare i due alla realtà esterna. Ma è anche la bocca buia che inghiotte affamata e che sputa segnali da un mondo che non può essere accettato così com’è, su due piedi.
Il Calapranzi formula le sue richieste, aumentandole gradualmente fino ad arrivare al paradosso. Uno dei due personaggi è disposto a rinunciare a tutto, ma non al suo tè. Ha una borsa con una sorta di riserva cibaria: qualcosa è buona, qualche altra è scaduta. Perché, quando il tempo passa nell’attesa, si incancrenisce ogni cosa e ciascuno diventa un rottame di sé; come il calapranzi, che prima era azione, un movimento, il contenitore di desideri e di piatti… ora è una bussola rotta che disorienta, l’antimediatore, il servitore di climax alla storia, il dispensatore di richieste, più semplicemente lo specchio delle ostilità.

Tutto questo per comunicarvi che il fantasma di Harold Pinter è apparso a Barcellona Pozzo di Gotto, con tutta la sua forza e con il suo surrealismo degli anni ‘60.
Ma c’è di più.
Ciò che recentemente è accaduto al Teatro FMA di Barcellona Pozzo di Gotto riguarda anche Michelangelo Maria Zanghì e la riconferma della sua competenza professionale, unitamente alla qualità della rassegna teatrale Scenanuda della compagnia teatrale “Santina Porcino”. Sì, perché lo spettacolo sull’Opera di Pinter che Zanghì ha proposto non ha ricevuto una “critica discreta”, come capita alle sperimentazioni. Ha ricevuto, semmai, il riconoscimento che a Barcellona Pozzo di Gotto il teatro di valore esiste anche lontano dai circuiti classici, tradizionali, dei grandi spazi dalle poltrone rosse e dalle mance pubblicitarie. Esiste ed è fortissimo.
Michelangelo Maria Zanghì ha convinto il pubblico accorso non solo perché, anche con l’aiuto di Simone Corso, ha saputo adattare l’opera di Pinter alle nostre assurdità contemporanee, ma ci ha imposto di vedere ciò che ovvietà non è: siamo tutti in attesa e formuliamo strane e insistenti domande su chi aspettiamo e su cosa. E lo facciamo anche su di noi, però in modo vago, quasi sorvolando senza attraversare le questioni. Perché se fosse subito chiara, lampante, senza incertezze, la nostra attesa, o la nostra domanda, perderebbe la sua connotazione di dubbio e quindi non sarebbe più neanche così importante.
Anche gli attori Michele Falica e Francesco Natoli, scelti dal nostro regista, si sono rivelati quelli giusti.
La recitazione asciutta, a tratti seria e a tratti comica, vera e falsa, dove ci si studia reciprocamente, e si litiga, ma si fa poi pace per allearsi con un terzo invisibile, la teatralità dei volti, gli slanci o le strozzature fisiche (anche della voce) statuiscono ciò che Pinter voleva suggerire, anche se lo fanno in chiave teatrale.
L’assurdità, unitamente al finale, rende lo spettacolo uno dei migliori degli ultimi tempi. Si sente forte l’eco di Ionesco e del suo Teatro dell’Assurdo, anche se dagli spazi claustrofobici.
Zanghì certamente si taglia ancora una porzione di notorietà aprendo alla città le porte di uno spettacolo di indubbia qualità.

Arriverà il “capo” dentro la nostra vita? O resterà nella sua invisibilità, trasformandosi nell’odio che quotidianamente sentiamo nei confronti dei nostri simili? E a noi finirà come è finita ai due personaggi di Pinter-Zanghì?
Il tonfo del vuoto rimanda ciò che a volte sentiamo dentro di noi quando aspettiamo una risposta. Ed è lo stesso rumore del calapranzi.