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Il poeta e critico letterario MAURIZIO CUCCHI è considerato dalla critica letteraria una voce poetica dell’era post-sperimentale e post-moderna, rivoluzionario nella organizzazione strutturale dei versi e nel filosofico poema esistenziale che si misura con il pattume della società attuale ed è teso a ricercare il senso della vita de  IL DISPERSO  nel degrado e nella presunta morte della poesia e nel funerale della cultura,un leopardiano abbraccio universale e nell’immortalità della poesia il vero significato dell’esistenza.

Maurizio Cucchi è nato a Milano nel 1945, dove vive. Si laurea all’Università Cattolica con una tesi su Nelo Risi e Zanzotto. Per anni opera come consulente editoriale, critico letterario e traduttore(Flaubert, Lamartine Mallarmé, Stendhal, Villiers de l’Isle-Adam,Prévert). Si impone alla critica e al pubblico già con la prima raccolta Il Disperso (Mondadori, 1976; Nuova edizione, Guanda, 1994),di cui scrive Magrelli: “Lenticolare e concentrica, la forza del”Disperso” rimane a tutt’oggi esemplare, nella sua intatta capacità di tradurre la fibrillazione psichica in parola poetica”.
Con Il disperso (1976) di Maurizio Cucchi abbiamo il primo e più tipico esempio di de-fondamentalizzazione del «soggetto» nella poesia italiana del Novecento. È l’assunzione nel discorso poetico della nozione di «frattura» del procedimento armonico; «frattura» e«differenza» del piano proposizionalistico. C’è, nel sostrato strutturale de Il disperso, più Beckett che Eliot e Pound; c’è la frattura formale che si consuma nella poesia italiana del tardo-Novecento attraverso il decentramento del piano narrativo, che resta senza inizio né fine e senza spazio-temporale che orienti gli eventi.È quanto era stato acquisito dal Nouveau Roman, ( che  proietta fuori di sé il disordine), dal Calvino della trilogia: la  poeticaenigmatica di derivazione kafkiana: c’è nell’opera poetica di Cucchiil dipanarsi di procedimenti creativi sedimentati e  convergenti.    Il discorso poematico de Il disperso non è caratterizzato più   dalla generalizzazione del soggetto sullo schermo della linguistica,ma è diventato un procedimento problematico. La poetica   propositivadella poesia italiana del Novecento entra in crisi irreversibile. siail canone sperimentale che il canone proposizionale   entrano in unacrisi a scapito della ipotassi. Anche il neodescrittivismo dellapoesia sperimentale degli anni Settanta è senza oggetto, nella maggiorparte dei casi, prestabilito. La poesia post-moderna di Cucchi invecetenta l’immersione nella dimensione linguistica, diluendo il«soggetto» in un sistema di differenze,  di significanti e disignificati distanziati. La «mitologia» viene sostituita dalla«topologia», il discorso sui luoghi sostituirà il discorso sui miti.il «paesaggio urbano” prevale su quello “rurale» come nella poesia diZanzotto o di Bertolucci. Non c’è più un autore-soggetto già stabilitola cui individuazione assicurerebbe il significato. Se nel simbolismoil «soggetto» costituisce la radice della significazione, nelpost-simbolismo, dove l’omogeneità strutturale è realizzata peraccumuli, per sottrazioni, per transizioni, per distinzioni, perscarti, il «soggetto» si costituisce nell’ambito di un sistema che lodefinisce come la parola-segno. Il «soggetto», nella sua non-identità,diventa una differenza fra altre, nel sistema generale delledifferenze possibili. Ne Il disperso c’è un enigmatico delitto. C’è unsoggetto inquisitorio, un poliziotto che tenta di ricostruire glieventi a partire dalle «indizi», dai «segni» presenti nella scenainiziale. C’è un cadavere, ma nessuno sa chi sia e perché sia propriolì e non altrove («È morto per un infarto (o per un incidentestradale, per un malore per via di un sasso): sì va bene, ma ci sarà /pure un colpevole, un responsabile / diretto, qualcuno che l’ha fattofuori»); e perché proprio quel morto e non altri morti-significanti.Ci sono dei segni-significanti che potrebbero condurre il soggettoinquisitorio a ricomporre la scena primaria del delitto ma ci sonoanche dei segni-significanti che potrebbero sviare l’indagine diricostruzione dell’evento delittuoso. A volte, compare una fessura delsoggetto narrante («Non ci voleva quel bicchiere rotto. / Poco meno diun simbolo»); subito dopo c’è l’ammissione della possibile causa dellamorte («E poi / la ferita, lo zampillo, l’incerottamento. Mi spiaceconfessarlo, / ma per fortuna che non c’ero»). L’occhio inquisitoriodel poliziotto tenta la ricostruzione degli eventi secondo un ordinerazionale-logico. Tutta la vicenda delittuosa viene passata alsetaccio dell’occhio logico-proposizionale: il titolo dell’incipit èsignificativo di questa procedura e suona: «La casa, gli estranei, iparenti prossimi». Ed ecco l’apertura dove ci sono tutti i dettaglidella scena primaria accaduta: la Lambretta a pezzi, la data, ungiovedì, le ipotesi sulla causa del decesso: un infarto? O unincidente?
Nei pressi di… trovata la Lambretta. Impolverata,
a pezzi. Nessuno di noi ha mai pensato
seriamente a ritirarla. Forse la paura. Rovistando
nel cassetto, al solito, il furbo di cui al seguito
ha ripescato una fascia elastica, una foto o due,
un dente di latte e un ricciolo rimasti nel portafogli,
dieci lire (che non c’entravano per niente…)
La domanda sulla questione dell’evento delittuoso pone all’ordine del giorno lo sguardo indagatorio che opera la rilettura del reale. La poesia de Il disperso pone la domanda in termini problematici. Siamo di fronte ad un vero e proprio mosaico di interrogazioni. Alla molteplicità delle domande possibili corrisponde una sola delle risposte. La poesia de Il disperso è tutta intessuta di «tracce» e di«differenze» (la dislocazione dell’«io»), di enunciati. La«differenza» è questo scarto, questo recupero impossibile del soggetto incessantemente differito nel processo interruptus del discorso. La scena primaria del delitto (presunto) funge da archi-traccia che  assume il valore di archè trascendentale

Con Il disperso (1976). Maurizio Cucchi offre un tipico esempio di  demolizione del «soggetto» nella poesia italiana del Novecento. È l’assunzione nel discorso poetico della nozione di «frattura» del procedimento armonico; «frattura» e «differenza» del piano proposizionale. C’è, nel sostrato strutturale de Il disperso, più Beckett che Eliot e Pound; c’è la frattura formale che si consuma nella poesia italiana del tardo Novecento attraverso il decentramento del piano narrativo, che resta senza inizio né fine,  senza soggetto che totalizzi, senza tematica che stabilizzi, senza cornice spazio-temporale che indirizzi gli eventi. È quanto era stato acquisito dal Nouveau Roman, dal pastiche sanguinetiano, al Calvino della trilogia:  Il discorso poematico de Il disperso è privo dell’asserzione concreta. È il discorso proposizionale della poesia italiana del Novecento.
Il discorso poetico de Il disperso esperisce una interna inadeguatezza del proprio statuto proposizionalistico: Il «confessato» diventa «inconfessabile», il «giustificato» diventa l’«ingiustificabile». Il motore assertorio si inceppa e si guasta: il discorso procede per arresti e strappi, per ritorni improvvisi e flashback, proiezioni in avanti e ritorni indietro, in incisi ipotetici e lacerti  interrogativi; ciò che si traduce sul piano stilistico in un’ abbondante messe di fraseologie plebee e piccolo-borghesi che si  giustappongono e si intrecciano. Affabulazioni impersonali e personalissime confessioni vengono giustapposte e sovrapposte con l’effetto finale, come incidentale, di una fibrillazione del  linguaggio poetico: e poi   / non capisco la ragione di questo grattarsi insistente sul di dietro. / Avrà a che fare (visto l’arrossamento, / i foruncoletti…) / con altri sintomi del genere (viscerali, / di solito,infiammazioni)? Prendo la pomata. / E intanto chi mi vede fa il dipiù. Che mi scoccia, con l’umido / e tutti i fatti miei e le telefonate alla cabina, / è il riscaldamento che non va: ho i piedi sporchi, / luridi. Giù in basso / stanno manovrando in quattro / con la caldaia a pezzi. Figurati se ho voglia / di scoprirmi…Il detective è una figura-proiezione spostata dell’io. Il figlio-detective si trova ad affrontare nella ricerca della scena primaria: il decesso del-padre. Giovanni Giudici ha scritto, con indubbio acume, che “Il disperso” è costruito come un «documento d’istruttoria». Verissimo,solo che il soggetto-detective avanza mascherato e a tentoni dentro una serie di «sovrapposizioni», di «scomposizioni», di «tracce» che rendono indistinguibile la scena primaria del crimine (vero opresunto). È un documento d’istruttoria davvero scombiccherato e dissestato dalla dispersione e frammentazione dei segni significanti e dall’occultamento dei segni significato. Intermezzi di dialoghi anonimi o «soverchiamente» carichi di affettività coniugale,fraseologie straniate frammiste a considerazioni pedestri e ad accumuli di «cose», un’ansia nomenclatoria di «cose». Incisi,intermezzi parenetici, parentetici, asserzioni apofantiche,proposizioni cartolari del «parlato». Un linguaggio frammentato e bombardato. È l’oralità che si riversa in poesia precipitando dentro un imbuto semantico: «Tutto è cominciato pochi giorni fa./  Mi ha proprio riferito la portiera di averlo visto uscire / quieto nel primo pomeriggio. (La giacca dall’attaccapanni, «torno tra poco». Sparisce.)E dico io». Quello che la poesia de Il disperso aggiunge alla attitudine tutta lombarda di fare poesia con i nomi propri di cose, di persone e di luoghi, è quella particolare aura di estraniazione che promana dall’opera. Rispetto ad altre opere milanesi uscite negli anni Sessanta: Gli strumenti umani di Sereni, La vita in versi di Giudici,Le case della Vetra di Raboni, La tartaruga di Jastov di Cesarano,Lotte secondarie di Majorino e La talpa imperfetta di Tiziano Rossi,tutti pubblicati tra il 1965 e il ’68, ne Il disperso l’estraneazione e l’atmosfera allucinata risultano assolutamente preponderanti. La ricerca de Il disperso oscilla tra   l’inafferrabile e l’imponderabile. È l’autonomia del simbolico che traccia la mappa del trans-soggettivo  A distanza di più di quarant’anni dalla pubblicazione e de” Il disperso”, oggi appare inequivocabile che l’opera si pone a latere dello sperimentalismo inglobandone  le residue potenzialità espressive; inaugura un modo stilistico introducendo degli slittamenti tra piani linguistici differenti. Un po’ come Somiglianze di Milo De Angelis apparso nello stesso anno di pubblicazione de Il disperso: il 1976. Entrambi i libri aprono e chiudono una stagione poetica tipicamente lombarda. Entrambi i libri presentano delle analogie stilistiche davvero sorprendenti:accelerazioni e cortocircuiti di fraseologie e piani linguistici, il paesaggio urbano delle periferie milanesi, l’accumulo di oggetti,l’inquadramento cinematografico di «interni», l’impianto tipicamente narrativo. Le opere che seguiranno: Le meraviglie dell’acqua (1980),Donna del gioco (1987), L’ultimo viaggio di Glenn (1999), segneranno una lunga marcia di allontanamento, anche stilistico, da Il disperso.O di avvicinamento a qualcosa che, anche stilisticamente, deve ancora avvenire, come nella successiva raccolta Vite pulviscolari (2009), la poesia di Cucchi proseguirà in direzione di una ricomposizione della folgorante vanificazione dell’esordio.

da Il disperso (1976)
La casa, gli estranei, i parenti prossimi
1 Nei pressi di.. trovata la Lambretta. Impolverata,a pezzi. Nessuno di noi ha mai pensato seriamente a ritirarla. Forse la paura. Rovistando nel cassetto, al solito, il furbo di cui al seguito ha ripescato una fascia elastica, una foto o due,un dente di latte e un ricciolo rimasti nel portafogli, dieci lire (che non c’entravano per niente..)
In aggiunta a tutto ricordo che quando venivo su dalle scale io era di giovedì, finita la scuola, verso mezzogiorno; ma era anche un ritorno diverso dal solito… Ci sarà un aggancio.
Adesso comunque, eccomi e:–  Credimi, fai caso a quel tale andare tirandosi dietro le gambe e tutto, con gli occhietti ancora appiccicati, nel pigiama, goffo da cane,rigido inamidato. Ma il bello è che me ne accorgo. E allora con che faccia fingere un’altra volta il tono giusto, le parole,cioè un po’ stiracchiate; il vestire in qualche modo?
(Che i morti siano due? Ma quello giusto?Indifferente? E il primo,come una specie di confidenza notturna, non è un parente stretto?Strettissimo?)
(Dimmi tu se è possibile. Pochi giorni fa era lì che faceva i suoi lavori. Pareva pacifico.)
È morto per un infarto (o per un incidente stradale, per un malore,per via di un sasso): sì, va bene, ma ci sarà pure un colpevole, un responsabile diretto, qualcuno che l’ha fatto fuori.
2  Non ci voleva quel bicchiere rotto.
Poco meno di un simbolo. Poco più
di una fissazione. O viceversa. E poi
la ferita, lo zampillo, l’incerottamento. Mi spiace confessarlo,
ma per fortuna che non l’ho fatto.
Nel 1980 pubblica Le meraviglie dell’acqua (Mondadori) e due anni più tardi il poemetto Glenn, (ed San Marco dei Giustiniani), è premiato al  Viareggio. Pubblica poi Dama del gioco e Poesia della fonte ancora per i tipi di Mondadori, nel 1987 e nel 1993. Nel 1996 ha curato, con Stefano Giovanardi, l’edizione di un’antologia dei poeti italiani del secondo Novecento, edita nei “Meridiani” Mondadori. Infine il suo ultimo lavoro, L’ultimo viaggio di Glenn, del marzo 1999. Ai suoi esordi la poesia di Cucchi si caratterizza, più che per ogni altro  poeta italiano contemporaneo, per l’ampiezza e il gusto delle descrizioni, delle enumerazioni di oggetti, che si sedimenta gradualmente nella vita di ognuno di noi, come un cancellare degli   spazi esistenziali. Ma, come osserva acutamente Magrelli, egli tratta questo materiale in modo molto particolare: “non come una semplice assunzione di materiali diversi, ma oggetti in apparenza assai lontani dal mondo dell’autore vengono qui assorbiti all’interno della sua poetica”, rendendoli materiale linguistico indispensabile al suo espressionismo (della poesia “lombarda” del Cucchi).  “un’esperienza …non passivante ma vitale nel confronto con la vera parola parlante, in un contesto in cui la parola, invece, è degradata, superficiale e asservita al travolgente consumismo”. Il calendario oggettuale di frammenti di cose superstiti al tempo, si trasforma per il Cucchi in un impegno “etico” della poesia, per sottrarsi alla parola sfarinata nella fredda enumerazione di oggetti consumistici della contemporaneità. In tal modo, egli riesce a sottrarre il verso alla banalità   usando le parole più usuali e i nomi degli oggetti, per costruire, fin dagli esordi, versi timbrici di un’operazione nuova e intelligente nella poesia degli anni ’70.
Racconta la vita come esperienza dell’assurdo sovrastata dalla morte e dalla violenza, calandosi nella mentalità del piccolo borghese milanese che ha bruciato ogni connessione con il flusso limpido e il senso dell’essere. L’ossessione di questo personaggio è la morte imprevedibile (“Dimmi tu se è possibile. Pochi giorni fa / era lì che faceva i suoi lavori. Pareva pacifico”): Per capire la morte infatti,occorre vivere nella dimensione della morte, accoglierla, farla propria in qualche modo. Nel suo linguaggio ai confini col parlato milanese (iterato , in alcune raccolte successive, anche in dialetto)il nostro personaggio assume di poesia in poesia posizioni diverse,quasi a sottolineare  la spersonalizzazione della radice comune  dell’Io narrante, speculare di un immaginario io collettivo ) espone i frammenti e la sinossi delle sue angosce: la paura ossessiva del sangue (“E poi / la ferita, lo zampillo, l’incerottamento. Mi spiace confessarlo / ma per fortuna che non c’ero”; o ancora “Colta la mira:giusto / giusto a perpendicolo nella pupilla / dell’occhio destro.Sangue. Inevitabile / lo svenimento”); le sue paranoie in un mondo disumanizzato e  incomprensibile (“Ma io non c’entro, / io non ho fatto niente… l’infarto… lo sa bene… ” / E mi toccavo i bottoni della giacca”; e “ma guarda tu quei due che sguardi… adesso si avvicinano…mi pestano… / mi lasciano svenuto sulla strada, a pezzi,sanguinante…); l’ossessione di rimanere a contatto vivo con le cose,quasi avaro delle cose, per surrogare il vuoto dell’inesistenza, come nel poemetto Le briciole nel taschino. Qua e là il poeta convoca atmosfera volti e figure di una limbica pena metropolitana, ogni giorno incontrati, di cui nauseato cerca di disfarsene. “La rimozione del ciarpame collettivo viene effettuata dal Cucchi come una sorta di denuncia che rinfaccia alla sua Milano questo abbandonarsi alle lascivie del vertiginoso processo di industrializzazione e del  postmoderno che l’abbruttisce, in balia dei suoi riti meccanici e delle sue nevrosi ossessive che distolgono la persona da unaconsapevolezza e da una solidarietà originaria con la sua umanità e con la sua spiritualità. E dunque ne Il Disperso, il poeta svolge a suo modo un mito del postmoderno, racconta il paradigma di una vicenda di distacco irreversibile da un qualcosa di cui si sono perdute anche le tracce, una scheggia di positività o una illusoria età edenica,antitetiche alla odierna negatività dei personaggi. E’ un tema connotativo del filone filosofico dal novecento in poi, e che declina  l’angoscia di una umanità idealmente nullificata e terrorizzata da tale prospettiva, evoca supporti visionari, feticci, amuleti,talismani reali e metaforici, per potersi salvare dall’ossessiva incombenza del pensiero della morte, un’idea che viene sempre  rimandata perché incomprensibile, qualcosa sempre di altri e senza nesso con la propria vita. Nelle opere più recenti invece lo stile di Cucchi si fa più limpido e diretto; il lessico dimesso compare poche volte e cede il passo ad una lingua che cerca una dimensione morbida e luminosa, un ritmo che assecondi un respiro più calmo e pacato; i contenuti sono imbevuti di sentimenti meno effervescenti e più positivi. Ma è sempre una poesia vissuta, che nasce dall’esperienza diretta e sempre all’ombra dei temi iniziali, a cui il poeta rimane fedele.
Cucchi svolge nelle sue raccolte successive il tema del senso collocandolo come cornice generale entro la quale svolge le  . I versi di Cucchi scaturiscono da una particolare sensibilità, che è squisitamente religiosa senza alcuna intrusione dogmatica. Lo sguardo di Cucchi trascende sempre la dimensione di ciò che racconta, proiettandosi verso un “oltre” percepibile, ma indecrittabile. Nella sua opera recente, L’ultimo viaggio di Glenn,questi temi sono elaborati in modo più raffinato e stilizzato. La dissoluzione della materia viene rappresentata in alcune poesie come dissoluzione dell’essere nel tema della morte), di fronte al quale l’incisione di un segno è sempre provvisoria, come l’affidare a una qualche orma il ricordo del suo provvisorio passaggio nel mondo: nel libro, il lettore viene   risucchiato in un vortice di vacuità, nella quale è costantemente inquietato da un martellante interrogativo.L’unico sbocco virtuale è il ricorso a  qualche sortilegio  di foscoliana memoria, un abbandonarsi al ricordo di quelli che ci  precedettero, come modo per espandere il proprio essere nel tempo, per raggiungere  una utopistica inestinguibilità nella sopravvivenza a se stesso, attraverso un segno o una parola,  fino alla disgregazione generale operata dal tempo: tale è la inconsistenza dell’esistere, che può essere superata soltanto nell’abbraccio universale  di solidarietà profonda tra le creature  umane: segno della memoria  di sé, che lo farà rivivere in iterazioni infinite, fino alla fine del tempo, come Foscolo aveva sigillato  Anche il linguaggio appare radicalmente mutato, in senso evolutivo. A parte la nitidezza dello stile e la proprietà lessicale, Cucchi utilizza frequenti ermetismi, ambienti indescrivibili privi di possibile collocazione, personaggi evanescenti  o  appena abbozzati, o evocati in una tensione spirituale, emozioni e sensazioni oniriche, a volte scivolate nell’agnosticismo esistenziale,nell’oscillazione allucinante fra disperazione e speranza.Nell’organizzazione sintattica, certe frasi presentano una stupefacente ambiguità e contrapposti significati: possono avere più di un soggetto, o termini   concordanti tra difforme opposizione.Fruscii di pensieri permangono nella mente corrosi dal sole e vaganti nell’ inconscio, intuiti e non rimossi, che il poeta recupera in versi  densi e di un efficace vigore espressivo. La prosodia del poeta è scandita da un simmetrico ritmo musicale, connotato da allitterazioni e da rime interne capaci di evocare un sostegno sonoro a un parlato che unisce il rigore del lessico, alla freschezza dell’ispirazione,fuse nel libero fluire dalla penna, senza quasi riflessioni postume osovrapposte elucubrazioni di pensiero.

Bibliografia:

Il Disperso, Guanda, 1994 (Mondadori, 1976)
Le meraviglie dell’acqua (Mondadori, 1980)
Glenn, (San Marco dei Giustiniani, 1982 &endash; premio Viareggio)
Il Figurante &endash; antologia 1971-1985, (Sansoni, 1985 )
Donna del gioco (Mondadori, 1987)
La luce del distacco (Crocetti, 1990)
Poesia della fonte (Mondadori, 1993 &endash; Premio Montale)
L’ultimo viaggio di Glenn (Mondadori, 1999)

da   L’ULTIMO VIAGGIO DI GLEEN (1999)

La prima immagine é il Lago di Garda,scavata in bianco e nero fino all’Ortles.

Sarò solo un bambino,
ma mio padre vive in eterno
Dopo la Jugoslavia nel luglio.’41,
con firma fiorita
salutava la Magda.
a-MauroIl paese era sparso sulla schiena del colle
e mi scorreva limpido negli occhi.
Nell’aria illogica di un sole svizzero
come la donna bidimensionale
in visone e scarpe di plastica
che aspettava il bambino a scuola.
<<Non sento quasi niente – ho detto -.
Però ti fermi su, alla chiesa,
e lasci che io vada solo in mezzo al bosco:
per rispetto, almeno, per raccoglimento>>
C’era un bel sole quel mattino di maggio.
Glenn se ne andava in moto dalla periferia,
la 6,35 in una tasca del vestito beige.
Vide l’amico nella casa al confine
e mangiò alla sua tavola
tranquillamente.Tina era sempre golosa,
ecco perché il cercatore di funghi
che attraversava il bosco,
gli trovò addosso,
trentasei ore dopo,
la tavoletta di cioccolato.
Glenn, come lo chiamavo nella mia mente io,
o com’è più dolce e semplice
com’è più vero:
Luigi.Resti per me una crepa d’affetto
o un lampo intermittente nel cervello.
E anche tu, che non l’hai mai visto,
lo ami.
Tu che hai taciuto, e oggi non taci più,
hai la memoria smangiata come la tua macula:
cerchi e non trovi più
nemmeno la sua voce.
Facevo il viale: per arrivare al campo.
Attorno, uomini coi badili,
e io piangevo poco.
Ma davanti alla scatola col tuo vago sorriso,
bellissimo, con la camicia scura aperta
e il distintivo del ferito,
il gelo mi è venuto dentro.
<<Cosa vuoi che ti dica?>>  ho fatto allora
con le mie rose in mano e con paura,
<<forse è già il tempo dell’indifferenza>>
Forse sono decotto, forse io stesso,
sono solo memoria di me stesso.
Lui se ne andò gettandoci
nell’improvviso-smarrimento.In un sacchetto della polizia,
ecco gli assegni, il pettine,
la benda per il polso…
Ciao, dico adesso senza più tremare.
Io ti ho salvato, ascoltami.
Ti lascio il meglio del mio cuore
e con il bacio della gratitudine,
questa serenità commossa.

L’IMMAGINAZIONE
Al suo pluridecennale canzoniere, MAURIZIO CUCCHI   aggiunge SINDROME DEL DISTACCO E TREGUA (Mondadori), opera commossa e lucidissima,attraverso la quale ripropone il proprio inimitabile percorso di uomo,prima ancora che di letterato, in una serie di viaggi spazio-temporali dell’Io che si cerca, attenuandosi a tratti nel “Je est un autre” per così dire, decentrandosi in mille occasioni e personaggi. Si tratta di un libro costruito su otto sezioni, otto narrazioni in versi e prosa,prive di trama, di fine o inizio, e delle quali il significato ultimo risiede nel miracolo della possibilità, nella forza del ricordo, nella magia dell’indeterminazione: “L’epilogo quale che sia non conta. Mai /Così il meccanismo, la banale trama. Conta / […] la rapsodia sparsa e sempre minuziosa / delle circostanze” (Il penitente di Prip’jat’).Dichiarazione di una poetica sulla quale si infulcra l’intera opera di Cucchi, fin dalle prime prove di Paradossalmente e con affanno(Teograf 1971) e che trova costante alimento nell’assoluta libertà di pensiero, nella pietas, nella consapevolezza di un dramma esistenziale che tutti ci accomuna. Una poetica portata sulla pagina con fantasia da fanciullo e sagacia da intellettuale, in un provvido corto circuito tra realtà e immaginazione: “Che paesaggio, piano, indifferente, /serenamente bigio nell’oceano, / […] / e io, la spuma tranquilla alle mie spalle, / in appoggio, slittavo in un sorriso nel vento / d’improvvisa adesione” (Improvvisa adesione). Già la prima poesia apre, quasi filmicamente, a un tempo remoto, “Dopo la notte rannicchiata / il vicolo del ghetto amico / […] la scritta IHS e sulla croce la data / per me formidabile: 1601” (ivi). Al salto diegetico,segue il respiro della dimenticanza, che ferma il maglio dell’azione e relativizza la presuntiva sapienza: “io vorrei prosperare nell’oblio /che disdegna nella sua salute l’azione” (ivi), lasciando campo a una verità di cui il “viaggiatore vile” attenderebbe che riempisse il suo“poco bagaglio” (ibid). Pure costante ritroviamo l’accorata attenzione ai miseri della Terra e la citata sezione Il penitente di Prip’jat’(città abbandonata, presso Chernobyl) ne è lunga testimonianza: “Nella foto di Kostin, lei è di spalle, avanza / […] vecchissima arranca verso un dove / di patria, un dove di pace e morte”. C’è il respiro della luziana Dottrina dell’estremo principiante, in quest’opera, il dolore carsico dei giorni, sempre però filtrato da quell’aplomb dialettico in cui Cucchi è maestro. Sono una palestra, i giorni, dove il Soggetto – uno dei tanti “microrganismi senza volto sociali”(Minuta gocciola) – domanda “se sia il caso o la mano / a presiedere infallibile / eppure misteriosa il gioco / sempre compostissimo / di queste insondabili armonie” (ivi). L’accento però cade sempre sulla coscienza, quando “anche la pensosa pietra / riesce a sognare la gioia quieta” (ivi). Versi d’alta significazione, che possono forse richiamare il pathos delle “lacrimae rerum” virgiliane. Anche in Antichi Bestioni, sezione aperta dall’analessi di un tempo infantile –un invariante, in Cucchi, questa primeva innocenza in noi silente –animali finti, docili al bimbo che ci gioca, hanno consapevolezza, ma senza malizia. Un ideale che alla violenza e al sospetto sostituisce latamente dolcezza e curiosità: “Io avevo la mia clava bene in pugno,/ ma osservandolo negli occhi, / negli occhioni spalancati di stupore/ quell’istante, ho avuto pietà / come fosse un fratello”. C’è un’estetica (la greca aisthesis – conoscenza sintetica del bello) e c’è un’etica, nell’innocenza, come nella frugalità. Nel viaggio,l’“homo aestheticus”, contrapposto all’infelice, magari arrogante,“homo oeconomicus”, è visto in semplici comparse, come tale Giuseppe,“El Pinìn”, contadino dalle arcaiche abitudini, o in protagonisti come Petrarca che soggiornò a Villa Linterno (periferia milanese), soggetti di Felicità frugale; o anche nella pescivendola Michelline, nella lavandaia eroina Catarina Ségurana, figure del vecchio quartiere nizzardo Babazouk, nome che intitola la settima sezione. Apparizioni,diffrazioni di un io peregrinante, attraverso cui si assapora l’affabile dimensione di luoghi marginali, a Milano – la Cascina  Monluè, la Martesana, i vecchi capannoni alla Bovisa – come a Nizza –rue de la Providence, rue de la Croix – dove, in rue Saint-Hospice, ci imbattiamo nell’angelica beltà di un volto femminile disegnato su un muro e presto dilavato dalla pioggia, “Ma quando poi torno a cercarla,/ io non la trovo più. Niente. / […] La pioggia, / forse, o la sorte comune del bello / venuto dal basso, da povere mani / sapienti” (Babazouk). È allora l’io passibile, armato di cultura e d’umiltà, a rivalutare l’esserci, oltre ogni torva economia. È il soggetto di Unidiota sociale, che domanda al destino “Quale sarà, di tutte, la vera dimora a cui ritorno?”, e il bambino che è in lui già si risponde “là dov’era il letto più morbido del mondo”; o il vecchio, che “spingeva /lentissimo il carrello di provviste” e, a ridosso della fine, seduto al pianoforte dice “…Ero così contento…”, con quella gioia semplice che illumina tutta l’immensità. (G. Parrini)