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Introdotto dalla Rettrice, prof.ssa Tanina Caliri, che ne ha tracciato un breve profilo bio-bibliografico, Antonio Catalfamo, docente universitario, critico letterario e poeta, direttore del Centro Studi “Nino Pino Balotta”, ha tenuto una lezione all’Università della Terza Età (UTE) di Barcellona Pozzo di Gotto sul tema “Bartolo Cattafi e la Sicilia magno-greca”.

Catalfamo ha esordito precisando che la sua non voleva essere una commemorazione ufficiale, nel centesimo anniversario della nascita di Cattafi, bensì una riflessione critica pacata, lungo il solco segnato dalla pubblicazione, nel 2019, di Tutte le poesie di Cattafi, per i tipi della casa editrice Le Lettere di Firenze, a cura di Raul Bruni e con un’ampia nota biografica di Diego Bertelli, che ha portato ad una svolta negli studi sull’opera di Bartolo Cattafi, ad opera di questi due giovani e valenti critici, determinata dal fatto che in questo corposo volume sono stati inclusi molti testi inediti, che hanno consentito l’acquisizione di una visione più ampia rispetto al passato e, quindi, più completa e ponderata. Ne è seguito un dibattito, a livello nazionale, sui principali giornali e sulle riviste più accreditate, dal quale sono emersi importanti novità critiche.

Catalfamo si è poi soffermato sulle tappe fondamentali della vita e dell’opera di Bartolo Cattafi, comunicando alcuni dati innovativi che sono emersi dalle ricerche compiute negli ultimi anni, a partire da quelli relativi al rapporto tra lo stesso Cattafi, ancora ragazzino, e Nino Pino Balotta, che lesse ed apprezzò i suoi primi componimenti, sottoponendoli poi all’attenzione di Corrado Govoni, nonché all’insediamento del poeta barcellonese a Milano, nel 1947, dove beneficiò dell’appoggio determinante negli ambienti letterari di Bianca Garufi, la scrittrice e psicanalista siciliana alla quale Cesare Pavese dedicò le poesie de “La terra e la morte” e i “Dialoghi con Leucò”.

Antonio Catalfamo ha poi rivendicato l’originalità del suo studio, che, secondo i principi della “biogeografia culturale”, valorizza nell’analisi critica, oltre alla componente storico-sociale, anche quella geografica, trascurata fino agli anni Sessanta del secolo scorso. Secondo questa impostazione, “il territorio non va inteso solo in termini strettamente geografici, ma anche come stratificazione delle diverse civiltà che in esso si sono succedute nei secoli, anzi nei millenni, con la loro cultura, i loro valori, i loro sentimenti. Anche nello scrittore, se si sente legato ai luoghi in cui è nato e vissuto, si stratificano queste civiltà e queste culture. Si viene a determinare, allora, un ‘corrispondenza biunivoca’ tra lo scrittore e il suo territorio di riferimento, nel senso ch’egli riesce a ‘decriptare’ i messaggi ‘cifrati’ che vengono da tale territorio e a tradurli nella sua opera letteraria”.

L’opera letteraria, precisa, dunque, Catalfamo, “è concrezione di storia, di cultura, di vita, in essa convergono elementi storici e metastorici, razionali ed irrazionali, consci ed inconsci (comprensivi, questi ultimi, dell’inconscio individuale e dell’inconscio collettivo), materiali, bio-sociali, e ‘spirituali’ (questi ultimi intesi non necessariamente in termini trascendentali e confessionali)”.
Questa precisazione metodologica appare indispensabile a Catalfamo per capire l’opera di Bartolo Cattafi, poeta strettamente legato alla sua Sicilia ed alla sua città natia, Barcellona Pozzo di Gotto.

Afferma il critico: “Negli anni milanesi le linee di poetica e di estetica presenti nell’opera di Cattafi si vanno strutturando e consolidando. Certamente, egli s’inserisce in tutta una tradizione lirica, che Romano Luperini definisce ‘postsimbolista e surrealista, non solo italiana ma europea’. Ma Cattafi conserva una sua  originalità, rappresentata, per l’appunto, dalla radice ‘magno-greca’, dal suo retroterra culturale che affonda nella classicità greca. La ‘grecità, la ‘sicilianità’ rappresentano il filo rosso che collega le sue opere man mano che vedono la luce”.
Cattafi dà vita ad un “ ‘corpo a corpo’  con la Sicilia e con la sua cultura ultramillenaria”, il suo è un “rapporto contrastato con la terra natia, così come esso si è configurato, con il medesimo tormento, in altri autori siciliani, a partire da Quasimodo, per passare a Basilio Reale e Bianca Garufi, attraverso Sciascia e Vincenzo Consolo, nonché Emilio Isgrò, per il quale la sicilianità va ‘cancellata’ e, nello stesso tempo, conservata, riacquisita in forme nuove, in un progresso infinito. Cancellare, dunque, non per distruggere, ma per riscrivere”.

Così Catalfamo focalizza i termini di questo “rapporto contrastato”: “Cattafi si accosta alla Sicilia e al mito greco ch’essa racchiude con un atteggiamento che tende, per dirla con Cesare Pavese, a ‘ridurlo a chiarezza’ attraverso un’analisi razionale complessa. Lo scrittore piemontese avverte la necessità che per mezzo di questa analisi, il mito venga ‘distrutto’, ma, nello stesso tempo, conservato, rielaborato, rilanciato, in forme sempre nuove, per dar vita ad un’arte e a una civiltà anch’esse continuamente rinnovate”.
Questa visione del mito è presente in tutta l’opera di Cattafi, che Catalfamo analizza dettagliatamente, con ampi riferimenti testuali. Il critico precisa, indi: “La visione che Cattafi ha del mito è intrisa di una componente ‘fatalistica’, che ha anch’essa un fondamento ‘biologico’, in quanto risale al fatalismo dei greci. Giacomo Debenedetti ha osservato che la visione fatalistica di Verga deriva dal mondo greco, in quanto i greci accettavano il ‘fato’ come un elemento tanto indiscutibile che neanche intessevano elucubrazioni su di esso e sul suo significato. Per Cattafi è un po’ diverso. Anch’egli ha una visione fatalistica della storia umana e, segnatamente, di quella della Sicilia, laddove egli vede succedersi regimi prefascisti, fascisti, americani che, tutto sommato, si equivalgono. Ma tale visione è accompagnata da una riflessione che si trasforma in poesia”.
Questa “sicilianità” e questa “grecità” trovano sbocco ne “L’aria secca del fuoco” (1972). Ma esse si protendono anche verso l’ultima fase della vita di Cattafi caratterizzata dalla malattia incurabile che lo condurrà alla morte. La “questione religiosa” che si manifesta in Cattafi in questa fase terminale “viene vissuta dal poeta come un fatto privato da non propagandare. Non assume, comunque, i caratteri del dogma. Quella di Cattafi è una fede problematica, aperta al dubbio come quella di David Maria Turoldo, nella quale Dio non è la risposta, ma la domanda”.

Qui Catalfamo richiama l’interpretazione “laica”  dell’ultima fase della poesia di Cattafi offerta da Giovanni Raboni nel risvolto di copertina di “Chiromanzia d’inverno” (1983), opera pubblicata postuma. Secondo il poeta amico,  nell’ultimo Cattafi si ripropone lo “scontro sanguinoso”, così tipico di tutta la sua opera, tra “concreto” e “astratto”, fra il “gusto cieco, amaro, inebriante della corporeità e il richiamo curioso e imperioso di una misteriosa geografia celeste”. Una dialettica, aggiunge Catalfamo, “tra materiale e ‘spirituale’, razionale ed irrazionale, conscio ed inconscio, in cui l’inconscio non deve far dimenticare il conscio”.

Catalfamo offre un’interpretazione originale dell’ultimo Cattafi, che affonda ancora una volta le radici nella sua “grecità”. Il poeta affronta la morte con grande dignità, dimostrando quel “senso superiore della vita” che il filologo Manara Valgimigli, venuto ad insegnare nella città dello Stretto dopo il terremoto del 1908, su invito di Giovanni Pascoli,  attribuì alle popolazioni del messinese come sopravvivenza dello spirito dei sofisti, nonché di Socrate. Così Catalfamo ha concluso la sua analisi: il “miracolo” dell’ultimo Cattafi consiste nel fatto ch’egli “riesce a riflettere liberamente sul significato dell’esistenza umana, senza la pretesa di risolvere l’enigma”.