CARO, DOLCE POETA (1978-1980-1989-2008—2020)
Erano i giorni dell’odio e del dolore
sul sentiero dei nidi di ragno
minato di insidie e di sangue
tra bufere di scoppi e di cadaveri
di mani che falciavano i fratelli
per l’insania di sentirsi egemoni
nel labirinto dell’ira e del perdono
di occhi clandestini che inseguivano
vergini allori e caldi seni
fiorivano sogni di libertà e d’amore
Poi nel sole di nuove primavere
deposero il mitra nei rifiuti
ti fasciarono con l’onda dei sospiri
ti ubriacarono con latte artificiale
ti anestetizzarono col mito vegetale
del bene collettivo
del patto di Marx con Dio
per le pure parallele geometrie
Eccoti tuffato nella pazienza della fame
nel sudario dei campi straziati
sui selciati dell’esilio per l’Europa
assediato dal gorgo delle lagrime
dal sorriso dei figli e delle madri
Eccoti nuotare nelle tossine della fabbrica
incollarti alla catena di montaggio
benedire la mano del padrone
che ti assicura lavoro e farmacia
che lavora lavora lavora
perché con un salario la vita è� dura
liofilizzati chicco pane
con la benedizione della madre
milton mister-baby poppatoio
Con l’auto di grossa cilindrata
la casa maiolicata – non importa
in affitto scadenze mutuate –
roulotte tv a colori jeans stagione
week-end di fine settimana
ferie liberamente programmate
alle Haway al Polo Nord sulla Luna
non importa non importa non importa
i conti tornano alla boa del mese
i figli con l’Honda la ragazza
chewing-gum barbarie discoteca
non importa il costo della vita
che sale nei ghetti i bimbi morti
di Napoli del Sud non importa
l’ombra del padre che rincasa
con il vuoto nel cuore e nelle mani
Ai padroni le materie prime il tuo salario
la mutua la ristrutturazione aziendale
le ville gli arenili le pinete
l’aereo lo yacht le piscine
l’harem il sole industriale
per la ginnastica cerebro-sessuale
è� liturgia manageriale sai
costano un occhio devi capire
i sindacati recitano una parte
ti tutelano il diritto al lavoro
ma quando le cifre si squinternano
– sai, tutto s’accomoda
bustarelle lubrificanti in varie zone
occultazioni di frodi alimentari
concessioni di licenze abusive
estorsioni-esenzioni fiscali
mutui agevolati contributi
rafforzano l’impero aziendale
tutto proprio s’accomoda
in questo secolo di sadici in congedo
devi essere anche tu a fare sacrifici
compila con scrupolo
la denuncia dei redditi
traccia croci tra i minuscoli rettangoli
infarcisci con rigore le linee
non lesinare spazio alle chiamate
se non basta scrivi
scrivi scrivi
fin su la carta lucida le note
dichiara le cifre di pensione sociale
la disoccupazione gli assegni familiari
il contributo per eventuali funerali
dichiara lo spessore
dell’aria che respiri
e poi non tralasciare versa in fretta
fatti i conti l’obolo dovuto
la crisi sarĂ scongiurata
l’economia riacquisterà salute
la bilancia dei pagamenti equilibrata
nell’alcova della UE saremo uguali
e non importa se il canone impazzirĂ ancora
non importa se non avrai una casa tua
se i figli avranno ancora paura
di udire la voce dei padroni,
non importa se la ferita sociale
produce morti e ancora morti e ancora morti
follemente massacrati sugli asfalti
delle cittĂ bruciate, sulla soglia
di casa dietro i cancelli delle fabbriche
o sputa sui disperati che preferiscono morire
al gelo, alla fame e al vituperio dei passanti
imborghesiti nel porcile del degrado etico.
dove c’è ancora da chiedersi” se questo è un uomo”
o se uomo potrĂ diventare
il bambino dalla madre soffocata
nelle mille scorie della pattumiera.
Eppure la bistecca ora è disponibile
cosmica surgelata a prezzi comodi,
corri all’ipermercato per la spesa
sui detersivi e sulla plastica
avrai forti sconti puoi cambiare
senza anticipo a rate l’automobile
la mutua ti assiste il fegato
ti cura per telefono la cariatide
e se vuoi una solida dentiera che dura secoli
vai in Croazia, dove costa di meno,anche gratis.
Tu ora sei libero libero libero
di vagabondare nei cunicoli
di questa cittĂ banale
imbozzolata nella diossina
di un universo astrale,
vagabondare vagabondare vagabondare
per l’Europa e per tutto il pianeta
perché elastica moderna è la catena
della tua felice schiavitĂą.
Non fermare la macina del tempo
sfibrato da scadenze intellettuali
e quando la ghigliottina dell’industria
ti ha lasciato la cervice intatta
non lasciare varchi agli aghi del pensiero
agghìndati di abitudini borghesi
di piaceri di diete energetiche di sesso
e se tanto non basta ancora aiutati
con una dose calibrata di psicofarmaci
programmati per la salvezza proletaria
dalla mefitica tensione alla demenza.
Ai figli che contesteranno
il tuo patrimonio di nequizie
e nel ciclone di altre primavere
uccideranno ancora
in preda ad un eccesso di demenza
per un sorso di equitĂ e di amore
o per sentirsi vivi nella noia
ai figli che piangeranno nel rimpianto
di non essere nati morti
umilmente dirai
che hai agito soltanto per il bene
di loro che crescevano ai tuoi giorni
anche tu hai comiziato contestato aggredito
i compagni-crumiri i sultani-boia,
ma poi hai capito che chi ha fame
con la rabbia urlante nelle viscere
approda solo a vittorie effimere
se non è al timone della storia
EÂ tu appeso al palo del supplizio
vittima-eroe padre-schiavo
ora dici che è tempo di martirio:
s’innalzi sul Golgota del cuore
la croce dei peccati collettivi
s’invochi la clemenza del dio-ignoto
perché il disastro ecologico ci salvi
E i figli giĂ sazi della tua ignavia
forse ti malediranno forse ti rinnegheranno
forse pronunzieranno sentenze di morte
per cancellare con te la tua inedia
che ha generato questi mostri-giorni
infiammati di odio e di viltĂ
Caro dolce poeta
mentre scrivo
sono gli anni degli assassini
e delle iene
ora è abbaglio
la luce del pensiero
è urlo ammanettato la parola
Questo secolo feroce ha affilato
i coltelli contro il dio-ignoto
Cristo è morto, è morto lacerato
sui tralicci del sogno e dell’assurdo
e l’inno nuovo l’inno tintinnante
dell’amore perduto tra corrive
pareti di crolli e di speranze
dementi nel tuo grido
è sinopia di quell’avventura
sognata all’alba nella tua officina
per te per me per un nuovo futuro
sul frontespizio della tua poesia
Ora nella foresta buia
il passo della giustizia è illividito
dal segno della morte
l’idillio della libertà si è smorzato
tra i dissidi di Opulenza e Amore
Ora si è dissolta la fierezza
di starti accanto nell’agonia
della genuflessione e del pudore
io e tu siamo allo spiedo della storia
e questo giorno promesso paradiso
per noi dietro mitiche bandiere
si fa cronaca del monologo col cielo
in questo riarso capitolo di storia
GiĂ la pietĂ scava crateri nel cuore
dove non sai se scendere o salire
e il rogo il rogo spaventevole il rogo
è pronto tra prigioni di demenza
a incenerire il tuo dramma e il mio
con i falò dell’inappartenenza
Caro dolce poeta la frontiera
che scruto oltre le ciglia
già straripa nell’anima che brucia
il tempo dell’attesa
nella terra rossa con le sue ferite
impastata di sangue e di ingiustizia
Ora ti scrivo per chiederti perdono
ho tradito ho tradito ho tradito
il tuo soave-dio
per i fatui malefici feticci
di questa disumana civiltĂ
Già la nube dell’apocalisse incombe
sulla luce degli occhi e della storia
già la lava del tempo urla l’ora
di veritĂ -verifiche assolute
ed io ti giuro rinnegherò il mio dio
distruggerò nell’arena il bue-d’oro
e abbraccerò il fuoco del cilicio
quando nelle parole del silenzio
mi parlerĂ il senso
della tua vera libertĂ .
Carmelo Aliberti
CARO, DOLCE POETA Poesia come discorso continuo sull’uomo, sicuro approdo di una particolare felicità espressiva.
di Michele Prisco
La modernità del testo è impressionante.
Scrive Michele Prisco:
“ogni parola ha sempre le sue origini nella sostanza umana e il canto si realizza come passione, sofferenza, denuncia, realtà interiore e anelito di liberazione, recupero di smarriti modi di vita… “Caro, dolce poeta” è� un messaggio destinato a ciascuno di noi, una voce che ciascuno di noi può sentire echeggiare dentro di sé. Obbedirle, o solamente accoglierla, è� già altro discorso: al poeta basta farla vibrare. “
“…e tu sei libero libero libero
di vagabondare nei cunicoli
di questa cittĂ banale
imbozzolata nella diossina
di un universo astrale
vagabondare vagabondare vagabondare
per l’Europa e per tutto il pianeta
perché elastica moderna è� la catena
della tua felice schiavitĂąďż˝
Non fermare la macina del tempo
sfibrato da scadenze intellettuali
e quando la ghigliottina dell’industria
ti ha lasciato la cervice intatta
non lasciare varchi agli aghi del pensiero
agghindati di abitudini borghesi
di piaceri di diete energetiche di sesso
e se tanto non basta ancora aiutati
con una dose calibrata di psicofarmaci
programmati per la salvezza proletaria
dalla mefitica tensione alla demenza…”
CARO, DOLCE POETA (1978-1980)
Non a caso questo nuovo – e non solo nel senso di recentissimo – volume di poesie di Carmelo Aliberti, quasi a sottolineare il tono unitario del libro, si intitola “Caro, dolce poeta”: dacché l’omonimo poemetto che vi � contenuto, uno degli esiti più alti di Aliberti, si fa chiave di lettura che ci consente, senza ricorsi a grimaldelli, di penetrare appieno nel mondo poetico dell’autore e cogliere non tanto o non soltanto il filo che lega insieme le varie composizioni ma, nella sua totalità , il sentimento che dagli inizi ha nutrito una ineludibile vocazione di poeta e si è sviluppato e maturato attraverso un discorso di penetrante sollecitazione e coinvolgimento dove ogni parola ha sempre le sue origini nella sostanza umana e il canto si realizza come passione, sofferenza, denuncia, realtà interiore e anelito di liberazione, recupero di smarriti modi di vita. E il risvolto drammatico del verso diventa rappresentativo di una meridionalità (di una sicilitudine) ferita, insofferente della sua condizione di terra emarginata e umiliata, non solo dalla sua stessa storia, ma dagli squilibri del suo presente e dalle intemperanze della sua cronaca.
E se in passato la molla ispiratrice della musa di Aliberti era una rabbia intesa prima di tutto e soprattutto come rifiuto e sdegno prima di farsi canto di dolore (e ne derivava una veemenza al limite del grido), ora, senza venir meno alla tensione lirica che sottende sempre il suo verso, e senza rinnegare il suo risentito impegno sociale, c’è� nella sua poesia come una più virile e matura consapevolezza della realtà e, insieme, un approdo al mito, che sembra in lui un motivo pressoché inedito, un richiamo alla forza, al primato dei sentimenti, degli affetti domestici, dell’amore inteso in un’accezione quasi più universale: in definitiva, come un naturale slittamento verso un maggiore e diverso impegno che definiremo stavolta esistenziale, etico. In questo senso, si accennava in principio alla novità della presente raccolta ma attenzione, si tratta di una novità che nasce dall’interno, che non si configura, in altri termini, come una svolta o un cambiamento o, peggio, una modificazione, da parte di Aliberti, del suo modo abituale di far (e intendere) poesia; e insomma vogliamo dire che
“Caro, dolce poeta” rappresenta, sì, un punto d’arrivo di particolare felicità espressiva ma è anche il segno di una continuità di discorso che dagli esordi ha saputo lucidamente riconoscere il timbro della propria voce interiore e ad esso è rimasto fedele lungo l’arco della propria occasione poetica
e giusto in virtù di questa fedeltà , o di questa coerenza, con la maturità è giunto a simili risultati:
mai come in questi versi Aliberti ci offre il suo ritratto d’uomo, il suo modo di essere uomo. Perché la poesia prima di essere un genere letterario è nozione e rivelazione di vita (e come tale appartiene a tutti); ed è un discorso sul destino umano che il poeta ha il privilegio di sapere esprimere in modo universale attraverso un colloquio da uomo a uomo.
Sotto questo aspetto, “Caro, dolce poeta” è un messaggio destinato a ciascuno di noi, una voce che ciascuno di noi può sentire echeggiare dentro di sé. Obbedirle, o solamente accoglierla, è già altro discorso: al poeta basta farla vibrare.
Cultura. “Caro, dolce Poeta” di Carmelo Aliberti. La nota dello scrittore Michele Prisco
CARO, DOLCE POETA (1978-1980-1989-2008—2020)
Erano i giorni dell’odio e del dolore
sul sentiero dei nidi di ragno
minato di insidie e di sangue
tra bufere di scoppi e di cadaveri
di mani che falciavano i fratelli
per l’insania di sentirsi egemoni
nel labirinto dell’ira e del perdono
di occhi clandestini che inseguivano
vergini allori e caldi seni
fiorivano sogni di libertà e d’amore
Poi nel sole di nuove primavere
deposero il mitra nei rifiuti
ti fasciarono con l’onda dei sospiri
ti ubriacarono con latte artificiale
ti anestetizzarono col mito vegetale
del bene collettivo
del patto di Marx con Dio
per le pure parallele geometrie
Eccoti tuffato nella pazienza della fame
nel sudario dei campi straziati
sui selciati dell’esilio per l’Europa
assediato dal gorgo delle lagrime
dal sorriso dei figli e delle madri
Eccoti nuotare nelle tossine della fabbrica
incollarti alla catena di montaggio
benedire la mano del padrone
che ti assicura lavoro e farmacia
che lavora lavora lavora
perché con un salario la vita è� dura
liofilizzati chicco pane
con la benedizione della madre
milton mister-baby poppatoio
Con l’auto di grossa cilindrata
la casa maiolicata – non importa
in affitto scadenze mutuate –
roulotte tv a colori jeans stagione
week-end di fine settimana
ferie liberamente programmate
alle Haway al Polo Nord sulla Luna
non importa non importa non importa
i conti tornano alla boa del mese
i figli con l’Honda la ragazza
chewing-gum barbarie discoteca
non importa il costo della vita
che sale nei ghetti i bimbi morti
di Napoli del Sud non importa
l’ombra del padre che rincasa
con il vuoto nel cuore e nelle mani
Ai padroni le materie prime il tuo salario
la mutua la ristrutturazione aziendale
le ville gli arenili le pinete
l’aereo lo yacht le piscine
l’harem il sole industriale
per la ginnastica cerebro-sessuale
è� liturgia manageriale sai
costano un occhio devi capire
i sindacati recitano una parte
ti tutelano il diritto al lavoro
ma quando le cifre si squinternano
– sai, tutto s’accomoda
bustarelle lubrificanti in varie zone
occultazioni di frodi alimentari
concessioni di licenze abusive
estorsioni-esenzioni fiscali
mutui agevolati contributi
rafforzano l’impero aziendale
tutto proprio s’accomoda
in questo secolo di sadici in congedo
devi essere anche tu a fare sacrifici
compila con scrupolo
la denuncia dei redditi
traccia croci tra i minuscoli rettangoli
infarcisci con rigore le linee
non lesinare spazio alle chiamate
se non basta scrivi
scrivi scrivi
fin su la carta lucida le note
dichiara le cifre di pensione sociale
la disoccupazione gli assegni familiari
il contributo per eventuali funerali
dichiara lo spessore
dell’aria che respiri
e poi non tralasciare versa in fretta
fatti i conti l’obolo dovuto
la crisi sarĂ scongiurata
l’economia riacquisterà salute
la bilancia dei pagamenti equilibrata
nell’alcova della UE saremo uguali
e non importa se il canone impazzirĂ ancora
non importa se non avrai una casa tua
se i figli avranno ancora paura
di udire la voce dei padroni,
non importa se la ferita sociale
produce morti e ancora morti e ancora morti
follemente massacrati sugli asfalti
delle cittĂ bruciate, sulla soglia
di casa dietro i cancelli delle fabbriche
o sputa sui disperati che preferiscono morire
al gelo, alla fame e al vituperio dei passanti
imborghesiti nel porcile del degrado etico.
dove c’è ancora da chiedersi” se questo è un uomo”
o se uomo potrĂ diventare
il bambino dalla madre soffocata
nelle mille scorie della pattumiera.
Eppure la bistecca ora è disponibile
cosmica surgelata a prezzi comodi,
corri all’ipermercato per la spesa
sui detersivi e sulla plastica
avrai forti sconti puoi cambiare
senza anticipo a rate l’automobile
la mutua ti assiste il fegato
ti cura per telefono la cariatide
e se vuoi una solida dentiera che dura secoli
vai in Croazia, dove costa di meno,anche gratis.
Tu ora sei libero libero libero
di vagabondare nei cunicoli
di questa cittĂ banale
imbozzolata nella diossina
di un universo astrale,
vagabondare vagabondare vagabondare
per l’Europa e per tutto il pianeta
perché elastica moderna è la catena
della tua felice schiavitĂą.
Non fermare la macina del tempo
sfibrato da scadenze intellettuali
e quando la ghigliottina dell’industria
ti ha lasciato la cervice intatta
non lasciare varchi agli aghi del pensiero
agghìndati di abitudini borghesi
di piaceri di diete energetiche di sesso
e se tanto non basta ancora aiutati
con una dose calibrata di psicofarmaci
programmati per la salvezza proletaria
dalla mefitica tensione alla demenza.
Ai figli che contesteranno
il tuo patrimonio di nequizie
e nel ciclone di altre primavere
uccideranno ancora
in preda ad un eccesso di demenza
per un sorso di equitĂ e di amore
o per sentirsi vivi nella noia
ai figli che piangeranno nel rimpianto
di non essere nati morti
umilmente dirai
che hai agito soltanto per il bene
di loro che crescevano ai tuoi giorni
anche tu hai comiziato contestato aggredito
i compagni-crumiri i sultani-boia,
ma poi hai capito che chi ha fame
con la rabbia urlante nelle viscere
approda solo a vittorie effimere
se non è al timone della storia
EÂ tu appeso al palo del supplizio
vittima-eroe padre-schiavo
ora dici che è tempo di martirio:
s’innalzi sul Golgota del cuore
la croce dei peccati collettivi
s’invochi la clemenza del dio-ignoto
perché il disastro ecologico ci salvi
E i figli giĂ sazi della tua ignavia
forse ti malediranno forse ti rinnegheranno
forse pronunzieranno sentenze di morte
per cancellare con te la tua inedia
che ha generato questi mostri-giorni
infiammati di odio e di viltĂ
Caro dolce poeta
mentre scrivo
sono gli anni degli assassini
e delle iene
ora è abbaglio
la luce del pensiero
è urlo ammanettato la parola
Questo secolo feroce ha affilato
i coltelli contro il dio-ignoto
Cristo è morto, è morto lacerato
sui tralicci del sogno e dell’assurdo
e l’inno nuovo l’inno tintinnante
dell’amore perduto tra corrive
pareti di crolli e di speranze
dementi nel tuo grido
è sinopia di quell’avventura
sognata all’alba nella tua officina
per te per me per un nuovo futuro
sul frontespizio della tua poesia
Ora nella foresta buia
il passo della giustizia è illividito
dal segno della morte
l’idillio della libertà si è smorzato
tra i dissidi di Opulenza e Amore
Ora si è dissolta la fierezza
di starti accanto nell’agonia
della genuflessione e del pudore
io e tu siamo allo spiedo della storia
e questo giorno promesso paradiso
per noi dietro mitiche bandiere
si fa cronaca del monologo col cielo
in questo riarso capitolo di storia
GiĂ la pietĂ scava crateri nel cuore
dove non sai se scendere o salire
e il rogo il rogo spaventevole il rogo
è pronto tra prigioni di demenza
a incenerire il tuo dramma e il mio
con i falò dell’inappartenenza
Caro dolce poeta la frontiera
che scruto oltre le ciglia
già straripa nell’anima che brucia
il tempo dell’attesa
nella terra rossa con le sue ferite
impastata di sangue e di ingiustizia
Ora ti scrivo per chiederti perdono
ho tradito ho tradito ho tradito
il tuo soave-dio
per i fatui malefici feticci
di questa disumana civiltĂ
Già la nube dell’apocalisse incombe
sulla luce degli occhi e della storia
già la lava del tempo urla l’ora
di veritĂ -verifiche assolute
ed io ti giuro rinnegherò il mio dio
distruggerò nell’arena il bue-d’oro
e abbraccerò il fuoco del cilicio
quando nelle parole del silenzio
mi parlerĂ il senso
della tua vera libertĂ .
Carmelo Aliberti
CARO, DOLCE POETA Poesia come discorso continuo sull’uomo, sicuro approdo di una particolare felicità espressiva.
di Michele Prisco
La modernità del testo è impressionante.
Scrive Michele Prisco:
“ogni parola ha sempre le sue origini nella sostanza umana e il canto si realizza come passione, sofferenza, denuncia, realtà interiore e anelito di liberazione, recupero di smarriti modi di vita… “Caro, dolce poeta” è� un messaggio destinato a ciascuno di noi, una voce che ciascuno di noi può sentire echeggiare dentro di sé. Obbedirle, o solamente accoglierla, è� già altro discorso: al poeta basta farla vibrare. “
“…e tu sei libero libero libero
di vagabondare nei cunicoli
di questa cittĂ banale
imbozzolata nella diossina
di un universo astrale
vagabondare vagabondare vagabondare
per l’Europa e per tutto il pianeta
perché elastica moderna è� la catena
della tua felice schiavitĂąďż˝
Non fermare la macina del tempo
sfibrato da scadenze intellettuali
e quando la ghigliottina dell’industria
ti ha lasciato la cervice intatta
non lasciare varchi agli aghi del pensiero
agghindati di abitudini borghesi
di piaceri di diete energetiche di sesso
e se tanto non basta ancora aiutati
con una dose calibrata di psicofarmaci
programmati per la salvezza proletaria
dalla mefitica tensione alla demenza…”
CARO, DOLCE POETA (1978-1980)
Non a caso questo nuovo – e non solo nel senso di recentissimo – volume di poesie di Carmelo Aliberti, quasi a sottolineare il tono unitario del libro, si intitola “Caro, dolce poeta”: dacché l’omonimo poemetto che vi � contenuto, uno degli esiti più alti di Aliberti, si fa chiave di lettura che ci consente, senza ricorsi a grimaldelli, di penetrare appieno nel mondo poetico dell’autore e cogliere non tanto o non soltanto il filo che lega insieme le varie composizioni ma, nella sua totalità , il sentimento che dagli inizi ha nutrito una ineludibile vocazione di poeta e si è sviluppato e maturato attraverso un discorso di penetrante sollecitazione e coinvolgimento dove ogni parola ha sempre le sue origini nella sostanza umana e il canto si realizza come passione, sofferenza, denuncia, realtà interiore e anelito di liberazione, recupero di smarriti modi di vita. E il risvolto drammatico del verso diventa rappresentativo di una meridionalità (di una sicilitudine) ferita, insofferente della sua condizione di terra emarginata e umiliata, non solo dalla sua stessa storia, ma dagli squilibri del suo presente e dalle intemperanze della sua cronaca.
E se in passato la molla ispiratrice della musa di Aliberti era una rabbia intesa prima di tutto e soprattutto come rifiuto e sdegno prima di farsi canto di dolore (e ne derivava una veemenza al limite del grido), ora, senza venir meno alla tensione lirica che sottende sempre il suo verso, e senza rinnegare il suo risentito impegno sociale, c’è� nella sua poesia come una più virile e matura consapevolezza della realtà e, insieme, un approdo al mito, che sembra in lui un motivo pressoché inedito, un richiamo alla forza, al primato dei sentimenti, degli affetti domestici, dell’amore inteso in un’accezione quasi più universale: in definitiva, come un naturale slittamento verso un maggiore e diverso impegno che definiremo stavolta esistenziale, etico. In questo senso, si accennava in principio alla novità della presente raccolta ma attenzione, si tratta di una novità che nasce dall’interno, che non si configura, in altri termini, come una svolta o un cambiamento o, peggio, una modificazione, da parte di Aliberti, del suo modo abituale di far (e intendere) poesia; e insomma vogliamo dire che
“Caro, dolce poeta” rappresenta, sì, un punto d’arrivo di particolare felicità espressiva ma è anche il segno di una continuità di discorso che dagli esordi ha saputo lucidamente riconoscere il timbro della propria voce interiore e ad esso è rimasto fedele lungo l’arco della propria occasione poetica
e giusto in virtù di questa fedeltà , o di questa coerenza, con la maturità è giunto a simili risultati:
mai come in questi versi Aliberti ci offre il suo ritratto d’uomo, il suo modo di essere uomo. Perché la poesia prima di essere un genere letterario è nozione e rivelazione di vita (e come tale appartiene a tutti); ed è un discorso sul destino umano che il poeta ha il privilegio di sapere esprimere in modo universale attraverso un colloquio da uomo a uomo.
Sotto questo aspetto, “Caro, dolce poeta” è un messaggio destinato a ciascuno di noi, una voce che ciascuno di noi può sentire echeggiare dentro di sé. Obbedirle, o solamente accoglierla, è già altro discorso: al poeta basta farla vibrare.