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CARO, DOLCE POETA (1978-1980-1989-2008—2020)

Erano i giorni dell’odio e del dolore

sul sentiero dei nidi di ragno

minato di insidie e di sangue

tra bufere di scoppi e di cadaveri

di mani che falciavano i fratelli

per l’insania di sentirsi egemoni

nel labirinto dell’ira e del perdono

di occhi clandestini che inseguivano

vergini allori e caldi seni

fiorivano sogni di libertà e d’amore

 

Poi nel sole di nuove primavere

deposero il mitra nei rifiuti

ti fasciarono con l’onda dei sospiri

ti ubriacarono con latte artificiale

ti anestetizzarono col mito vegetale

del bene collettivo

del patto di Marx con Dio

per le pure parallele geometrie

 

Eccoti tuffato nella pazienza della fame

nel sudario dei campi straziati

sui selciati dell’esilio per l’Europa

assediato dal gorgo delle lagrime

dal sorriso dei figli e delle madri

 

Eccoti nuotare nelle tossine della fabbrica

incollarti alla catena di montaggio

benedire la mano del padrone

che ti assicura lavoro e farmacia

che lavora lavora lavora

perché con un salario la vita è� dura

liofilizzati chicco pane

con la benedizione della madre

milton mister-baby poppatoio

 

Con l’auto di grossa cilindrata

la casa maiolicata – non importa

in affitto scadenze mutuate –

roulotte tv a colori jeans stagione

week-end di fine settimana

ferie liberamente programmate

alle Haway al Polo Nord sulla Luna

non importa non importa non importa

i conti tornano alla boa del mese

i figli con l’Honda la ragazza

chewing-gum barbarie discoteca

non importa il costo della vita

che sale nei ghetti i bimbi morti

di Napoli del Sud non importa

l’ombra del padre che rincasa

con il vuoto nel cuore e nelle mani

 

Ai padroni le materie prime il tuo salario

la mutua la ristrutturazione aziendale

le ville gli arenili le pinete

l’aereo lo yacht le piscine

l’harem il sole industriale

per la ginnastica cerebro-sessuale

è� liturgia manageriale sai

costano un occhio devi capire

i sindacati recitano una parte

ti tutelano il diritto al lavoro

ma quando le cifre si squinternano

– sai, tutto s’accomoda

bustarelle lubrificanti in varie zone

occultazioni di frodi alimentari

concessioni di licenze abusive

estorsioni-esenzioni fiscali

mutui agevolati contributi

rafforzano l’impero aziendale

tutto proprio s’accomoda

in questo secolo di sadici in congedo

devi essere anche tu a fare sacrifici

compila con scrupolo

la denuncia dei redditi

traccia croci tra i minuscoli rettangoli

infarcisci con rigore le linee

non lesinare spazio alle chiamate

se non basta scrivi

scrivi scrivi

fin su la carta lucida le note

dichiara le cifre di pensione sociale

la disoccupazione gli assegni familiari

il contributo per eventuali funerali

dichiara lo spessore

dell’aria che respiri

e poi non tralasciare versa in fretta

fatti i conti l’obolo dovuto

la crisi sarà scongiurata

l’economia riacquisterà salute

la bilancia dei pagamenti equilibrata

nell’alcova della UE saremo uguali

e non importa se il canone impazzirà ancora

non importa se non avrai una casa tua

se i figli avranno ancora paura

di udire la voce dei padroni,

non importa se la ferita sociale

produce morti e ancora morti e ancora morti

follemente massacrati sugli asfalti

delle città bruciate, sulla soglia

di casa dietro i cancelli delle fabbriche

o sputa sui disperati  che preferiscono morire

al gelo, alla fame e al vituperio dei  passanti

imborghesiti nel porcile del degrado etico.

dove c’è ancora da chiedersi” se questo è un uomo”

o se uomo potrà diventare

il bambino dalla madre soffocata

nelle mille scorie della pattumiera.

 

Eppure la bistecca ora  è disponibile

cosmica surgelata a prezzi comodi,

corri all’ipermercato per la spesa

sui detersivi e sulla plastica

avrai forti sconti puoi cambiare

senza anticipo a rate l’automobile

la mutua ti assiste il fegato

ti cura per telefono la cariatide

e se vuoi  una solida dentiera che dura secoli

vai in Croazia, dove costa di meno,anche gratis.

 

Tu  ora sei libero libero  libero

di vagabondare nei cunicoli

di questa città banale

imbozzolata nella diossina

di un universo astrale,

vagabondare vagabondare  vagabondare

per l’Europa e per tutto il pianeta

perché elastica moderna è la catena

della tua felice schiavitù.

 

Non fermare la macina del tempo

sfibrato da scadenze intellettuali

e quando la ghigliottina dell’industria

ti ha lasciato la cervice intatta

non lasciare varchi agli aghi del pensiero

agghìndati di abitudini borghesi

di piaceri di diete energetiche di sesso

e se tanto non basta ancora aiutati

con una dose calibrata di psicofarmaci

programmati per la salvezza proletaria

dalla mefitica tensione alla demenza.

 

Ai figli che contesteranno

il tuo patrimonio di nequizie

e nel ciclone di altre primavere

uccideranno ancora

in preda ad un eccesso di demenza

per un sorso di equità e di amore

o per sentirsi vivi nella noia

ai figli che piangeranno nel rimpianto

di non essere nati morti

umilmente dirai

che hai agito soltanto per il bene

di loro che crescevano ai tuoi giorni

anche tu hai comiziato contestato aggredito

i compagni-crumiri i sultani-boia,

ma poi hai capito che chi ha fame

con la rabbia urlante nelle viscere

approda solo a vittorie effimere

se non è al timone della storia

 

E  tu appeso al palo del supplizio

vittima-eroe padre-schiavo

ora dici che è tempo di martirio:

s’innalzi sul Golgota del cuore

la croce dei peccati collettivi

s’invochi la clemenza del dio-ignoto

perché il disastro ecologico ci salvi

 

E i figli già sazi della tua ignavia

forse ti malediranno forse ti rinnegheranno

forse pronunzieranno sentenze di morte

per cancellare con te la tua inedia

che ha generato questi mostri-giorni

infiammati di odio e di viltà

 

Caro dolce poeta

mentre scrivo

sono gli anni degli assassini

e delle iene

ora è  abbaglio

la luce del pensiero

è  urlo ammanettato la parola

 

Questo secolo feroce ha affilato

i coltelli contro il dio-ignoto

Cristo è morto,  è morto lacerato

sui tralicci del sogno e dell’assurdo

e l’inno nuovo l’inno tintinnante

dell’amore perduto tra corrive

pareti di crolli e di speranze

dementi nel tuo grido

è sinopia di quell’avventura

sognata all’alba nella tua officina

per te per me per un nuovo futuro

sul frontespizio della tua poesia

 

Ora nella foresta buia

il passo della giustizia è  illividito

dal segno della morte

l’idillio della libertà si è  smorzato

tra i dissidi di Opulenza e Amore

 

Ora si è  dissolta la fierezza

di starti accanto nell’agonia

della genuflessione e del pudore

io e tu siamo allo spiedo della storia

e questo giorno promesso paradiso

per noi dietro mitiche bandiere

si fa cronaca del monologo col cielo

in questo riarso capitolo di storia

 

Già la pietà scava crateri nel cuore

dove non sai se scendere o salire

e il rogo il rogo spaventevole il rogo

è pronto tra prigioni di demenza

a incenerire il tuo dramma e il mio

con i falò dell’inappartenenza

 

Caro dolce poeta la frontiera

che scruto oltre le ciglia

già straripa nell’anima che brucia

il tempo dell’attesa

nella terra rossa con le sue ferite

impastata di sangue e di ingiustizia

 

Ora ti scrivo per chiederti perdono

ho tradito ho tradito ho tradito

il tuo soave-dio

per i fatui malefici feticci

di questa disumana civiltà

 

Già la nube dell’apocalisse incombe

sulla luce degli occhi e della storia

già la lava del tempo urla l’ora

di verità-verifiche assolute

ed io ti giuro rinnegherò il mio dio

distruggerò nell’arena il bue-d’oro

e abbraccerò il fuoco del cilicio

quando nelle parole del silenzio

mi parlerà il senso

della tua vera libertà.

 

Carmelo Aliberti

 

 

CARO, DOLCE POETA Poesia come discorso continuo sull’uomo, sicuro approdo di una particolare felicità espressiva.

 

di Michele Prisco

 

La modernità del testo è impressionante.

 

Scrive Michele Prisco:

 

“ogni parola ha sempre le sue origini nella sostanza umana e il canto si realizza come passione, sofferenza, denuncia, realtà interiore e anelito di liberazione, recupero di smarriti modi di vita… “Caro, dolce poeta” è� un messaggio destinato a ciascuno di noi, una voce che ciascuno di noi può sentire echeggiare dentro di sé. Obbedirle, o solamente accoglierla, è� già altro discorso: al poeta basta farla vibrare. “

“…e tu sei libero libero libero

di vagabondare nei cunicoli

di questa città banale

imbozzolata nella diossina

di un universo astrale

vagabondare vagabondare vagabondare

per l’Europa e per tutto il pianeta

perché elastica moderna è� la catena

della tua felice schiavitù�

Non fermare la macina del tempo

sfibrato da scadenze intellettuali

e quando la ghigliottina dell’industria

ti ha lasciato la cervice intatta

non lasciare varchi agli aghi del pensiero

agghindati di abitudini borghesi

di piaceri di diete energetiche di sesso

e se tanto non basta ancora aiutati

con una dose calibrata di psicofarmaci

programmati per la salvezza proletaria

dalla mefitica tensione alla demenza…”

 

CARO, DOLCE POETA (1978-1980)

 

Non a caso questo nuovo – e non solo nel senso di recentissimo – volume di poesie di Carmelo Aliberti, quasi a sottolineare il tono unitario del libro, si intitola “Caro, dolce poeta”: dacché l’omonimo poemetto che vi � contenuto, uno degli esiti più alti di Aliberti, si fa chiave di lettura che ci consente, senza ricorsi a grimaldelli, di penetrare appieno nel mondo poetico dell’autore e cogliere non tanto o non soltanto il filo che lega insieme le varie composizioni ma, nella sua totalità, il sentimento che dagli inizi ha nutrito una ineludibile vocazione di poeta e si è sviluppato e maturato attraverso un discorso di penetrante sollecitazione e coinvolgimento dove ogni parola ha sempre le sue origini nella sostanza umana e il canto si realizza come passione, sofferenza, denuncia, realtà interiore e anelito di liberazione, recupero di smarriti modi di vita. E il risvolto drammatico del verso diventa rappresentativo di una meridionalità (di una sicilitudine) ferita, insofferente della sua condizione di terra emarginata e umiliata, non solo dalla sua stessa storia, ma dagli squilibri del suo presente e dalle intemperanze della sua cronaca.

E se in passato la molla ispiratrice della musa di Aliberti era una rabbia intesa prima di tutto e soprattutto come rifiuto e sdegno prima di farsi canto di dolore (e ne derivava una veemenza al limite del grido), ora, senza venir meno alla tensione lirica che sottende sempre il suo verso, e senza rinnegare il suo risentito impegno sociale, c’è� nella sua poesia come una più virile e matura consapevolezza della realtà e, insieme, un approdo al mito, che sembra in lui un motivo pressoché inedito, un richiamo alla forza, al primato dei sentimenti, degli affetti domestici, dell’amore inteso in un’accezione quasi più universale: in definitiva, come un naturale slittamento verso un maggiore e diverso impegno che definiremo stavolta esistenziale, etico. In questo senso, si accennava in principio alla novità della presente raccolta ma attenzione, si tratta di una novità che nasce dall’interno, che non si configura, in altri termini, come una svolta o un cambiamento o, peggio, una modificazione, da parte di Aliberti, del suo modo abituale di far (e intendere) poesia; e insomma vogliamo dire che

“Caro, dolce poeta” rappresenta, sì, un punto d’arrivo di particolare felicità espressiva ma è anche il segno di una continuità di discorso che dagli esordi ha saputo lucidamente riconoscere il timbro della propria voce interiore e ad esso è rimasto fedele lungo l’arco della propria occasione poetica

e giusto in virtù di questa fedeltà, o di questa coerenza, con la maturità è giunto a simili risultati:

mai come in questi versi Aliberti ci offre il suo ritratto d’uomo, il suo modo di essere uomo. Perché la poesia prima di essere un genere letterario è nozione e rivelazione di vita (e come tale appartiene a tutti); ed è un discorso sul destino umano che il poeta ha il privilegio di sapere esprimere in modo universale attraverso un colloquio da uomo a uomo.

Sotto questo aspetto, “Caro, dolce poeta” è un messaggio destinato a ciascuno di noi, una voce che ciascuno di noi può sentire echeggiare dentro di sé. Obbedirle, o solamente accoglierla, è già altro discorso: al poeta basta farla vibrare.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Cultura. “Caro, dolce Poeta” di Carmelo Aliberti. La nota dello scrittore Michele Prisco

CARO, DOLCE POETA (1978-1980-1989-2008—2020)

Erano i giorni dell’odio e del dolore
sul sentiero dei nidi di ragno
minato di insidie e di sangue
tra bufere di scoppi e di cadaveri
di mani che falciavano i fratelli
per l’insania di sentirsi egemoni
nel labirinto dell’ira e del perdono
di occhi clandestini che inseguivano
vergini allori e caldi seni
fiorivano sogni di libertà e d’amore

Poi nel sole di nuove primavere
deposero il mitra nei rifiuti
ti fasciarono con l’onda dei sospiri
ti ubriacarono con latte artificiale
ti anestetizzarono col mito vegetale
del bene collettivo
del patto di Marx con Dio
per le pure parallele geometrie

Eccoti tuffato nella pazienza della fame
nel sudario dei campi straziati
sui selciati dell’esilio per l’Europa
assediato dal gorgo delle lagrime
dal sorriso dei figli e delle madri

Eccoti nuotare nelle tossine della fabbrica
incollarti alla catena di montaggio
benedire la mano del padrone
che ti assicura lavoro e farmacia
che lavora lavora lavora
perché con un salario la vita è� dura
liofilizzati chicco pane
con la benedizione della madre
milton mister-baby poppatoio

Con l’auto di grossa cilindrata
la casa maiolicata – non importa
in affitto scadenze mutuate –
roulotte tv a colori jeans stagione
week-end di fine settimana
ferie liberamente programmate
alle Haway al Polo Nord sulla Luna
non importa non importa non importa
i conti tornano alla boa del mese
i figli con l’Honda la ragazza
chewing-gum barbarie discoteca
non importa il costo della vita
che sale nei ghetti i bimbi morti
di Napoli del Sud non importa
l’ombra del padre che rincasa
con il vuoto nel cuore e nelle mani

Ai padroni le materie prime il tuo salario
la mutua la ristrutturazione aziendale
le ville gli arenili le pinete
l’aereo lo yacht le piscine
l’harem il sole industriale
per la ginnastica cerebro-sessuale
è� liturgia manageriale sai
costano un occhio devi capire
i sindacati recitano una parte
ti tutelano il diritto al lavoro
ma quando le cifre si squinternano
– sai, tutto s’accomoda
bustarelle lubrificanti in varie zone
occultazioni di frodi alimentari
concessioni di licenze abusive
estorsioni-esenzioni fiscali
mutui agevolati contributi
rafforzano l’impero aziendale
tutto proprio s’accomoda
in questo secolo di sadici in congedo
devi essere anche tu a fare sacrifici
compila con scrupolo
la denuncia dei redditi
traccia croci tra i minuscoli rettangoli
infarcisci con rigore le linee
non lesinare spazio alle chiamate
se non basta scrivi
scrivi scrivi
fin su la carta lucida le note
dichiara le cifre di pensione sociale
la disoccupazione gli assegni familiari
il contributo per eventuali funerali
dichiara lo spessore
dell’aria che respiri
e poi non tralasciare versa in fretta
fatti i conti l’obolo dovuto
la crisi sarà scongiurata
l’economia riacquisterà salute
la bilancia dei pagamenti equilibrata
nell’alcova della UE saremo uguali
e non importa se il canone impazzirà ancora
non importa se non avrai una casa tua
se i figli avranno ancora paura
di udire la voce dei padroni,
non importa se la ferita sociale
produce morti e ancora morti e ancora morti
follemente massacrati sugli asfalti
delle città bruciate, sulla soglia
di casa dietro i cancelli delle fabbriche
o sputa sui disperati  che preferiscono morire
al gelo, alla fame e al vituperio dei  passanti
imborghesiti nel porcile del degrado etico.
dove c’è ancora da chiedersi” se questo è un uomo”
o se uomo potrà diventare
il bambino dalla madre soffocata
nelle mille scorie della pattumiera.

Eppure la bistecca ora  è disponibile
cosmica surgelata a prezzi comodi,
corri all’ipermercato per la spesa
sui detersivi e sulla plastica
avrai forti sconti puoi cambiare
senza anticipo a rate l’automobile
la mutua ti assiste il fegato
ti cura per telefono la cariatide
e se vuoi  una solida dentiera che dura secoli
vai in Croazia, dove costa di meno,anche gratis.

Tu  ora sei libero libero  libero
di vagabondare nei cunicoli
di questa città banale
imbozzolata nella diossina
di un universo astrale,
vagabondare vagabondare  vagabondare
per l’Europa e per tutto il pianeta
perché elastica moderna è la catena
della tua felice schiavitù.

Non fermare la macina del tempo
sfibrato da scadenze intellettuali
e quando la ghigliottina dell’industria
ti ha lasciato la cervice intatta
non lasciare varchi agli aghi del pensiero
agghìndati di abitudini borghesi
di piaceri di diete energetiche di sesso
e se tanto non basta ancora aiutati
con una dose calibrata di psicofarmaci
programmati per la salvezza proletaria
dalla mefitica tensione alla demenza.

Ai figli che contesteranno
il tuo patrimonio di nequizie
e nel ciclone di altre primavere
uccideranno ancora
in preda ad un eccesso di demenza
per un sorso di equità e di amore
o per sentirsi vivi nella noia
ai figli che piangeranno nel rimpianto
di non essere nati morti
umilmente dirai
che hai agito soltanto per il bene
di loro che crescevano ai tuoi giorni
anche tu hai comiziato contestato aggredito
i compagni-crumiri i sultani-boia,
ma poi hai capito che chi ha fame
con la rabbia urlante nelle viscere
approda solo a vittorie effimere
se non è al timone della storia

E  tu appeso al palo del supplizio
vittima-eroe padre-schiavo
ora dici che è tempo di martirio:
s’innalzi sul Golgota del cuore
la croce dei peccati collettivi
s’invochi la clemenza del dio-ignoto
perché il disastro ecologico ci salvi

E i figli già sazi della tua ignavia
forse ti malediranno forse ti rinnegheranno
forse pronunzieranno sentenze di morte
per cancellare con te la tua inedia
che ha generato questi mostri-giorni
infiammati di odio e di viltà

Caro dolce poeta
mentre scrivo
sono gli anni degli assassini
e delle iene
ora è  abbaglio
la luce del pensiero
è  urlo ammanettato la parola

Questo secolo feroce ha affilato
i coltelli contro il dio-ignoto
Cristo è morto,  è morto lacerato
sui tralicci del sogno e dell’assurdo
e l’inno nuovo l’inno tintinnante
dell’amore perduto tra corrive
pareti di crolli e di speranze
dementi nel tuo grido
è sinopia di quell’avventura
sognata all’alba nella tua officina
per te per me per un nuovo futuro
sul frontespizio della tua poesia

Ora nella foresta buia
il passo della giustizia è  illividito
dal segno della morte
l’idillio della libertà si è  smorzato
tra i dissidi di Opulenza e Amore

Ora si è  dissolta la fierezza
di starti accanto nell’agonia
della genuflessione e del pudore
io e tu siamo allo spiedo della storia
e questo giorno promesso paradiso
per noi dietro mitiche bandiere
si fa cronaca del monologo col cielo
in questo riarso capitolo di storia

Già la pietà scava crateri nel cuore
dove non sai se scendere o salire
e il rogo il rogo spaventevole il rogo
è pronto tra prigioni di demenza
a incenerire il tuo dramma e il mio
con i falò dell’inappartenenza

Caro dolce poeta la frontiera
che scruto oltre le ciglia
già straripa nell’anima che brucia
il tempo dell’attesa
nella terra rossa con le sue ferite
impastata di sangue e di ingiustizia

Ora ti scrivo per chiederti perdono
ho tradito ho tradito ho tradito
il tuo soave-dio
per i fatui malefici feticci
di questa disumana civiltà

Già la nube dell’apocalisse incombe
sulla luce degli occhi e della storia
già la lava del tempo urla l’ora
di verità-verifiche assolute
ed io ti giuro rinnegherò il mio dio
distruggerò nell’arena il bue-d’oro
e abbraccerò il fuoco del cilicio
quando nelle parole del silenzio
mi parlerà il senso
della tua vera libertà.

Carmelo Aliberti

CARO, DOLCE POETA Poesia come discorso continuo sull’uomo, sicuro approdo di una particolare felicità espressiva.

di Michele Prisco

La modernità del testo è impressionante.

Scrive Michele Prisco:

“ogni parola ha sempre le sue origini nella sostanza umana e il canto si realizza come passione, sofferenza, denuncia, realtà interiore e anelito di liberazione, recupero di smarriti modi di vita… “Caro, dolce poeta” è� un messaggio destinato a ciascuno di noi, una voce che ciascuno di noi può sentire echeggiare dentro di sé. Obbedirle, o solamente accoglierla, è� già altro discorso: al poeta basta farla vibrare. “
“…e tu sei libero libero libero
di vagabondare nei cunicoli
di questa città banale
imbozzolata nella diossina
di un universo astrale
vagabondare vagabondare vagabondare
per l’Europa e per tutto il pianeta
perché elastica moderna è� la catena
della tua felice schiavitù�
Non fermare la macina del tempo
sfibrato da scadenze intellettuali
e quando la ghigliottina dell’industria
ti ha lasciato la cervice intatta
non lasciare varchi agli aghi del pensiero
agghindati di abitudini borghesi
di piaceri di diete energetiche di sesso
e se tanto non basta ancora aiutati
con una dose calibrata di psicofarmaci
programmati per la salvezza proletaria
dalla mefitica tensione alla demenza…”

CARO, DOLCE POETA (1978-1980)

Non a caso questo nuovo – e non solo nel senso di recentissimo – volume di poesie di Carmelo Aliberti, quasi a sottolineare il tono unitario del libro, si intitola “Caro, dolce poeta”: dacché l’omonimo poemetto che vi � contenuto, uno degli esiti più alti di Aliberti, si fa chiave di lettura che ci consente, senza ricorsi a grimaldelli, di penetrare appieno nel mondo poetico dell’autore e cogliere non tanto o non soltanto il filo che lega insieme le varie composizioni ma, nella sua totalità, il sentimento che dagli inizi ha nutrito una ineludibile vocazione di poeta e si è sviluppato e maturato attraverso un discorso di penetrante sollecitazione e coinvolgimento dove ogni parola ha sempre le sue origini nella sostanza umana e il canto si realizza come passione, sofferenza, denuncia, realtà interiore e anelito di liberazione, recupero di smarriti modi di vita. E il risvolto drammatico del verso diventa rappresentativo di una meridionalità (di una sicilitudine) ferita, insofferente della sua condizione di terra emarginata e umiliata, non solo dalla sua stessa storia, ma dagli squilibri del suo presente e dalle intemperanze della sua cronaca.
E se in passato la molla ispiratrice della musa di Aliberti era una rabbia intesa prima di tutto e soprattutto come rifiuto e sdegno prima di farsi canto di dolore (e ne derivava una veemenza al limite del grido), ora, senza venir meno alla tensione lirica che sottende sempre il suo verso, e senza rinnegare il suo risentito impegno sociale, c’è� nella sua poesia come una più virile e matura consapevolezza della realtà e, insieme, un approdo al mito, che sembra in lui un motivo pressoché inedito, un richiamo alla forza, al primato dei sentimenti, degli affetti domestici, dell’amore inteso in un’accezione quasi più universale: in definitiva, come un naturale slittamento verso un maggiore e diverso impegno che definiremo stavolta esistenziale, etico. In questo senso, si accennava in principio alla novità della presente raccolta ma attenzione, si tratta di una novità che nasce dall’interno, che non si configura, in altri termini, come una svolta o un cambiamento o, peggio, una modificazione, da parte di Aliberti, del suo modo abituale di far (e intendere) poesia; e insomma vogliamo dire che
“Caro, dolce poeta” rappresenta, sì, un punto d’arrivo di particolare felicità espressiva ma è anche il segno di una continuità di discorso che dagli esordi ha saputo lucidamente riconoscere il timbro della propria voce interiore e ad esso è rimasto fedele lungo l’arco della propria occasione poetica
e giusto in virtù di questa fedeltà, o di questa coerenza, con la maturità è giunto a simili risultati:
mai come in questi versi Aliberti ci offre il suo ritratto d’uomo, il suo modo di essere uomo. Perché la poesia prima di essere un genere letterario è nozione e rivelazione di vita (e come tale appartiene a tutti); ed è un discorso sul destino umano che il poeta ha il privilegio di sapere esprimere in modo universale attraverso un colloquio da uomo a uomo.
Sotto questo aspetto, “Caro, dolce poeta” è un messaggio destinato a ciascuno di noi, una voce che ciascuno di noi può sentire echeggiare dentro di sé. Obbedirle, o solamente accoglierla, è già altro discorso: al poeta basta farla vibrare.