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Il poeta e critico barcellonese Antonio Catalfamo, dopo aver trascorso alcuni mesi nelle Langhe, sulle tracce di Cesare Pavese, Beppe Fenoglio e Giovanni Arpino, ha voluto rinnovare il suo impegno a favore della letteratura siciliana, inviando alla nostra redazione una nota su Melo Freni (nella foto con Catalfamo), che pubblichiamo di seguito.

Catalfamo ha accompagnato la nota con la seguente dichiarazione: “Le città di Barcellona Pozzo di Gotto e di Castroreale, in cui egli ha vissuto l’infanzia, l’adolescenza, la prima giovinezza, debbono molto a Melo Freni, in quanto, con la sua opera poliedrica, ha dato lustro, a livello nazionale ed internazionale, a questo mondo in cui è nato e si è formato, con i valori e la cultura che lo hanno caratterizzato, affondando le radici nei secoli. E’, pertanto, necessario, che i veri uomini di cultura, che operano proficuamente in queste realtà territoriali, si adoperino per divulgare a livello locale il pensiero e l’opera del loro grande conterraneo. In tal senso, rivolgo un appello ad essi, affinché organizzino manifestazioni in questa direzione. Io ho fatto la mia parte e intendo continuare a farla”.

Elio Vittorini ha scritto che, incontrando Francesco Lanza per la prima volta, questi non gli sembrò, di primo acchito, un poeta, per il suo aspetto dimesso, ma subito dopo il suo interlocutore si palesò tale pronunciando una frase, insieme semplice ed altamente poetica: “Basterebbe che quei rami si muovessero appena…”, per dire dell’afa che li circondava.

Così io ho avuto conferma che Melo Freni è un grande poeta quando, nel nostro primo incontro, avvenuto l’estate scorsa, nella sua villetta di Marchesana, a pochi chilometri da Barcellona Pozzo di Gotto, mi ha detto che, ovunque sia andato, nei numerosi viaggi della sua vita, per lavoro o per curiosità culturale, dalla Cina alla valle dei faraoni, in Egitto, ha ritrovato sempre, sopra di sé, quella luna “pallida e triste” dei suoi versi d’esordio, che “si lascia solleticare / da un granchio di fuoco artificiale”. Egli l’ha ritrovata sempre sopra di sé, perché l’ha sempre portata dentro di sé. E questo per dire quanto sia legato alla sua terra di Sicilia, in maniera semplice e, nel contempo, molto poetica, se è vero, com’è vero, quel che ha scritto Leopardi nello Zibaldone, vale a dire che la natura ha in sé una dimensione poetica. Si tratta di scoprirla. E ognuno di noi può scoprirla se è profondamente legato al territorio in cui è nato e vissuto.

E qui vorrei richiamarmi al concetto di “biogeografia culturale”. Il territorio non ha solo una dimensione geografica. In esso si stratificano tutte le civiltà che si sono succedute nei secoli, anzi nei millenni, con le culture, i valori dei popoli che di esse sono stati portatori. Anche nel poeta, se si sente strettamente legato al suo territorio di riferimento, si stratificano quelle civiltà. E’ come se esistesse una “corrispondenza biunivoca” tra il poeta e il suo territorio di riferimento: egli è in grado di “decriptare” i “messaggi” che vengono dal territorio e di tradurli, per l’appunto, in poesia. E così Melo Freni è depositario di tutta la cultura e di tutte le civiltà che si sono stratificate nei millenni nel suo territorio di riferimento, che va da Barcellona Pozzo di Gotto, città nella quale è nato, nel 1934, nella casa di proprietà di un altro poeta, Nino Pino Balotta, suo parente dal lato materno, a Castroreale, dove ha vissuto a lungo nel corso della sua infanzia e della sua adolescenza, perché lì il padre Nunzio aveva una rinomata pasticceria. In particolare, hanno inciso su Melo Freni la cultura greca e quella araba.

Proprio a Castroreale è dedicato il primo, prezioso libretto di poesie, “Odor di pane caldo”,   pubblicato dal Nostro nel 1962 e introdotto da una rara prefazione di un altro poeta suo concittadino, Bartolo Cattafi, che, con poche pennellate, ne coglie l’essenza, sottolineando, con acume critico, che Melo Freni, nell’occuparsi della sua Sicilia, a differenza di tanti altri che l’hanno preceduto, è riuscito ad evitare il “folklore” deteriore, l’immagine di un “comodo scaffale ricolmo di locale e lustra chincaglieria coloristica”. E ciò è stato possibile proprio perché Melo Freni ha alle spalle una “dolente e appassionata civiltà”,  qual è quella greca e ‒ aggiungiamo noi ‒ quella araba. Per questo, a nostro avviso, Cattafi parla di “nativa fedeltà”, che si combina con l’ “umiltà” del poeta.

E’ stato Cattafi a suggerire il titolo di questa prima raccolta poetica di Melo Freni, che ben racchiude in sé i due caratteri della semplicità e, nel contempo, della complessità che dominano la cultura “magno-greca” di cui Melo Freni è depositario. E questi due caratteri convivono nelle poesie della silloge. Non è un caso che molte immagini proposte dal Nostro trovino puntuale riscontro in altre presenti in poeti neo-greci come Ghiannis Ritsos. Si pensi a una poesia come “Fiera del Sud”. Nella bottega d’un vasaio tutto è rimasto sospeso nel tempo. Il vasaio sperava di tornare per “rinverdire” la tradizione delle giare, delle brocche, dei salvadanai, che rifioriva a Castroreale ancora nei tempi in cui Melo Freni vi abitava. Così il vasaio ha lasciato la porta socchiusa e tutti gli oggetti al loro posto, pronti per essere ripresi in mano per continuare il lavoro interrotto. Ma il tempo è trascorso invano e lui non è tornato. Per cui la sospensione acquista la dimensione dell’eternità che troviamo proprio in poeti neo-greci come Ritsos. “La creta sotto il sacco s’è indurita / e sopra l’acqua che pende dal muro / c’è il filo di bava della ragnatela”.

Il lavoro non è stato più ripreso, perché gli oggetti che plasmava il vasaio non servono più, nella società industrializzata che già agli inizi degli anni Sessanta del secolo scorso, quando Melo Freni scriveva questi versi, cominciava ad infliggere i primi colpi mortali alla civiltà contadina, che si era protratta per millenni. Melo Freni dà l’idea di questa rottura epocale con versi semplici  e ‒ dicevamo ‒ , nello stesso tempo, complessi. E’ tutta una dimensione umana che scompare e che aveva le sue radici nella stessa creazione: “Con la creta il Signore fece l’uomo. / Ora la creta indura perché il figlio / non sente più la forza di soffiare”. E’ il soffio vitale che viene meno. E tutti noi possiamo verificare quanto siano state “profetiche” le parole di Melo Freni se guardiamo agli effetti disumananti della società tecnologica attuale, nella fase estrema dell’informatizzazione.

Accanto all’influenza greca, c’è in Melo Freni quella araba. Egli è vissuto in una Sicilia ancora dominata dai giardini d’origine araba, con i loro colori, i loro profumi che inebriavano. “Il giardino di Hamdìs” (1992) s’intitola un aureo libretto di Melo Freni, in cui egli parla, per l’appunto, del poeta siculo-arabo Ibn Hamdìs (1055-1133), costretto a lasciare la Sicilia, in cui era nato, a seguito del sopraggiungere dei normanni. Per Hamdìs la Sicilia è il giardino più bello. “I fiori di Grecia avevano lasciato il profumo della nostalgia”, scrive Melo Freni, ma ad essi si erano assommati i profumi delle piante portate dagli arabi: i limoni, gli aranci amari. Il poeta è cresciuto in una Barcellona immersa negli aranceti e nei limoneti, ha potuto sentire gli odori greci ed arabi riuniti in singolare armonia. E nella Castroreale dell’infanzia e dell’adolescenza “l’odor di legna cruda / delle ginestre agli  angoli scoscesi”. E la vita scorreva frenetica “al Salvatore / umile piano sotto le campane”. Il territorio è colto in queste poesie d’esordio nella sua doppia dimensione geografica e umana, in un equilibrio sottile creato dal tempo, nel trascorrere dei secoli.

Sullo sfondo il promontorio di Tindari col santuario della Madonna Nera, al quale sicuramente Melo Freni si è recato tante volte in pellegrinaggio, da bambino. Il poeta si fa portavoce di una religiosità spontanea, ma, nello stesso tempo, coglie l’atmosfera complessa dei luoghi, in cui convivono, anche qui in un plurisecolare equilibrio, la sofferenza e la gioia del credente, il pianto e i profumi intensi, i particolari suggestivi e la dimensione dell’infinito: “La mite sofferenza di un sorriso / senza sussulti scivola nel nulla / lentamente si perde”. L’immagine ossimorica della “mite sofferenza” del “sorriso” è, per l’appunto, emblematica dell’equilibrio e della conciliazione degli opposti.

Su tutti i profumi domina quello del pane caldo, preannunciato dal titolo della silloge. Un odore, anche questo, che testimonia la continuità della civiltà nei secoli. Un odore che si sprigiona nella notte e invade il paese, in esso “trova buchi, passaggi / e s’avventura”. Un odore che unifica l’umanità, il ricco e il povero: il pane, bagnato nell’olio, sana le ferite non solo del “fornaio”, ma di tutti gli uomini e di tutte le donne, perché, alfine, “siamo poveri tutti” di fronte ai misteri del creato.

Melo Freni non è caduto negli “opposti unilateralismi”. Non ha voluto offrire un’immagine edulcorata della Sicilia, né, per converso, una rappresentazione esclusivamente a tinte fosche. Ha saputo raffigurare la Sicilia così com’è, “terra di tutti i frutti, / terra di tutti i lutti”, come ha scritto Basilio Reale, suo compagno di studi liceali al San Luigi di Messina, vale a dire nella sua immensa vitalità e creatività, e, nel contempo, nella carica distruttiva che pure la pervade, di cui la mafia è una componente fondamentale.