Condividi:

Antonio Catalfamo, poeta, scrittore, critico letterario, docente universitario, direttore del Centro Studi “Nino Pino Balotta” di Barcellona Pozzo di Gotto, prosegue nei suoi studi sulla letteratura siciliana e, in particolare, sugli scrittori e sui poeti della sua città.

Pubblichiamo qui di seguito una nota dedicata a Bartolo Cattafi. Catalfamo ha pubblicato e si accinge a pubblicare, su riviste italiane e straniere, saggi dedicati ad altri autorevoli scrittori barcellonesi, quali Nino Pino, Antonio Aliberti e Nino Famà.

Nel centenario della nascita, Antonio Catalfamo ha voluto ricordare il poeta barcellonese Bartolo Cattafi, in sintonia con le manifestazioni che a livello nazionale sono già state realizzate in questi primi mesi del 2022 o che sono in programma per i mesi a venire. Tutto quest’anno, al di là della data simbolica del 6 luglio, in cui Cattafi è nato, a Barcellona Pozzo di Gotto, sarà dedicato a lui, come è giusto che sia, trattandosi di una voce autorevole della poesia italiana del Novecento, da studiare “a tutto tondo”, dai vari punti di vista critici, mettendo in risalto, a seconda dei metodi ermeneutici adottati, un aspetto o un altro della sua opera prismatica.
Giuseppe Petronio ci ha avvertiti che l’opera letteraria è una concrezione di realtà, di vita, di storia, la forma più alta di umanità, in cui converge tutto l’essere dell’artista, che è (per dirla con Nino Pino) un “biotipo”, punto terminale di un processo biologico-sociale, che rimonta nei secoli, anzi nei millenni, interessando gli ascendenti, gli antenati di ogni uomo, fino a quelli delle caverne, in cui convergono elementi razionali ed irrazionali, consci ed inconsci (comprensivi dell’inconscio collettivo e dell’inconscio individuale), storico-sociali e “spirituali” (questi ultimi da intendersi non necessariamente in termini religiosi). Conseguentemente, non è possibile analizzare l’opera di Cattafi prescindendo dai “contesti” (economico-sociale, storico-politico, ideologico, culturale, letterario), nell’ambito dei quali egli è vissuto, e, in particolare, da quello della Sicilia, in cui è nato e si è formato negli anni giovanili, ritornandovi a più riprese, anche nell’ultima fase della sua travagliata esistenza.
Cattafi si è sentito fortemente legato alla Sicilia natia. Egli stesso ha sottolineato la dimensione “biologica” del suo fare poesia, rispondente ad un impulso irrefrenabile, nella quale converge, inevitabilmente, aggiunge Catalfamo, il suo rapporto con il territorio di appartenenza, inteso non solo in senso geografico, ma anche culturale, in quanto soggetto ad un processo di stratificazione nei secoli delle civiltà che in esso si sono succedute, con i valori, i sentimenti, di cui si sono fatte portatrici, secondo il principio della “biogeografia culturale”. E, allora, si viene a determinare una “corrispondenza biunivoca” tra l’autore e il suo territorio di riferimento, per cui egli riesce a “decriptare” i messaggi “cifrati” che da esso provengono e che questi traduce in poesia.
Così, è forte l’influenza nell’opera di Cattafi del retroterra culturale greco, essendo egli vissuto in un’area geografica pienamente inserita nella Magna Grecia, così detta – com’è noto – perché, ad un certo punto, i coloni greci che l’abitavano sono diventati più numerosi dei greci che abitavano la madrepatria.
Giacomo Debenedetti, occupandosi dell’opera di Giovanni Verga, ha sottolineato come lo scrittore siciliano sia erede del fatalismo dei suoi antenati greci, insediati nell’isola, che hanno vissuto il fato come un fatto naturale, senza imbastire su di esso speculazioni teoriche, accettandolo per se stesso, nonché di quello arabo, più problematico, in quanto non esclude la speranza, di quello feudale, con le sue regole rigide di immobilismo sociale, e di quello cattolico, anch’esso conservatore, almeno nelle sue manifestazioni ufficiali. Questo fatalismo è stato ricondotto da Vitilio Masiello all’appartenenza di Verga, così come di Pirandello, alla classe “aristocratico-borghese” dell’isola. Ciò ha determinato il pessimismo verghiano, divenuto totale nel passaggio dai “Malavoglia” al “Mastro-don Gesualdo”, e, aggiunge Catalfamo, all’ultimo romanzo, “Dal tuo al mio”, nel quale la vena letteraria dello scrittore sembra inaridirsi, ma si conferma e inasprisce la sua ideologia conservatrice.
Lo stesso pessimismo riguarda Bartolo Cattafi. Il suo legame “biologico” con la Sicilia emerge soprattutto dalla prima sezione de “L’aria secca del fuoco” (1972), intitolata significativamente “Lo Stretto”, scritta in maniera torrenziale, rispondendo, per l’appunto, ad un impulso “biologico”, dopo parecchi anni di silenzio poetico. In essa sono presenti gli odori, i sapori, le tradizioni, i riti, dell’isola, e, in particolare, dell’area ristretta della provincia di Messina. Questi versi rappresentano, secondo Dante Maffia, la parte migliore della produzione cattafiana, proprio perché si tratta di “poesia biologica” (la definizione è di Catalfamo), intimamente legata alle sue radici territoriali (nel significato ampio del termine, già chiarito) e culturali. Ma Cattafi, con il suo pessimismo totale, legato alla sua appartenenza, al pari di Verga e di Pirandello, alla classe “aristocratico-borghese” isolana, contesta le dominazioni straniere che si sono succedute nei secoli, che hanno depredato la Sicilia delle sue risorse. Emblematica, in tal senso, la poesia “Sotto le rocce di Tindari”. In essa i dominatori stranieri sono rappresentati come uccelli rapaci, che hanno insozzato l’isola con i loro escrementi. Il peggiore di essi è stato Verre, propretore romano della Sicilia dal 73 al 71 a.C., che si distinse per una politica di rapina e tutta all’insegna della corruzione politico-amministrativa: Leggiamo: “Scaturiti dalle rocce / destatisi da un sonno millenario / volano gufi gracchiando / storditi dai dardi della luce / tra loro si lanciano richiami / e intese in antica combutta / con suoni greci arabi latini. / Qui ogni mese fu buono / con o senza l’erre / per caccia pesca rapina / su queste rocce lasciarono / scialbi detriti di guerre / anfore colme di storia e di guano. / Quello col becco più adunco / forse è Verre”.
Nella seconda sezione de “L’aria secca del fuoco”, intitolata “A dicembre Badoglio”, Cattafi contesta gli effetti nefasti della dominazione americana, iniziata in Sicilia con lo sbarco del luglio 1943, l’ipocrisia dell’armistizio dell’8 settembre dello stesso anno, di Badoglio e dei suoi generali (si vedano componimenti come quello che dà il titolo alle sezione, eppoi “Voi Siciliani e noi Italiani”, “Capitani coraggiosi”, “Paisani” “Toponomastica”), in conformità a scritti in prosa risalenti ai primi anni Cinquanta riscoperti e pubblicati da Paolo Maccari nel volume “Spalle al muro. La poesia di Bartolo Cattafi” (Società Editrice Fiorentina, Firenze, 2003). Si veda, in particolare, “La campana che suona dall’Ovest” (ivi, pp. 227-229). Questa contestazione viene non da posizioni antiamericane di estrema sinistra, ma da “destra”, in sintonia con l’appartenenza di Cattafi alla classe dell’ “aristocrazia borghese”, legata alle professioni ed alla proprietà agraria. Questo essere di “destra” di Cattafi, lungo la linea che porta, a ritroso, in ambito siciliano, a Verga e a Pirandello, non deve condizionare di per sé in negativo il giudizio sul poeta barcellonese, in quanto Petronio, proprio con riferimento a Verga, sottolinea che bisogna guardare alla personalità complessiva di uno scrittore, alla “sostanza umana” della sua opera, che comprende inevitabilmente contraddizioni, che non necessariamente debbono giungere ad una sintesi dialettica, che le superi e, nel contempo, le conservi, ma possono rimanere (come accade anche in scrittori impegnati politicamente “a sinistra”, come Pasolini, aggiunge Catalfamo) nell’ambito della “sineciosi” letteraria. Quel che rileva è il valore artistico dell’opera, il risultato ultimo della trasfigurazione e della transcodificazione letteraria. E, sotto questo profilo, il giudizio sull’opera di Cattafi non può non essere positivo.
Secondo Antonio Catalfamo, Bartolo Cattafi ha dato il meglio di sé nell’ultima fase della sua vita, segnata dalla malattia incurabile che lo ha condotto alla morte. E’ la fase in cui si realizza la “conversione” del poeta che si sposa con rito religioso cattolico a Messina, a distanza di tanti anni dal matrimonio civile contratto in Scozia. La “religiosità” di Cattafi non va vista in termini dogmatici, bensì problematici, come ha messo in risalto il filologo Letterio Cassata. Come avviene nelle poesie di David Maria Turoldo, anch’egli morto di cancro, Dio non è per Cattafi la risposta, bensì la domanda, che trova sempre nuove, diverse risposte. Nella poesia “Libertà”, contenuta nella raccolta postuma “Chiromanzia d’inverno” (1983), il poeta, da un lato, si consegna nelle mani del Signore, accetta tutto il suo volere, dall’altro lato, si duole dei “soprusi” divini ch’egli ha subito nel corso della sua travagliata esistenza. Il “primo” è rappresentato, verisimilmente, dalla morte del padre prima ch’egli nascesse. L’ “ultimo” dal tumore che lo conduce alla tomba.
Cattafi ha affrontato la morte con coraggio e dignità. Anche qui, secondo Antonio Catalfamo, hanno inciso le radici greche del poeta. Il distacco razionale col quale egli analizza la malattia si può far risalire a Socrate e ai sofisti, quest’ultimi nell’interpretazione che ne ha dato il filosofo e filologo trentino Mario Untersteiner, il quale ha smentito la “vulgata” che ha rappresentato nei secoli i sofisti come prezzolati che, dietro pagamento di denaro, insegnano ai rampolli della classe in ascesa a difendere i propri interessi nell’ambito della “democrazia dell’agorà”. Per Untersteiner essi sono portatori di un sapere fondato in maniera salutare sul dubbio, su verità relative, che possono esser messe continuamente in discussione. Così è anche Cattafi, che affronta la malattia mortale con un distacco razionale che dimostra l’esistenza in lui di un senso superiore della vita, a cui non sono estranee persino l’ironia e l’autoironia. Un cercatore della verità, nella sua articolazione, il poeta barcellonese, come Socrate, che sa ascoltare l’opinione della gente comune, incontrata per strada, e farne tesoro.
Antonio Catalfamo conclude con l’auspicio che il centenario della nascita di Cattafi costituisca l’occasione per nuovi studi, a livello nazionale ed internazionale, e preannuncia proprie pubblicazioni, incentrate sulla scoperta di aspetti finora poco noti della biografia e dell’opera del poeta suo concittadino.