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Nell’ambito del Progetto 10.1.1A-FSEPON-SI-2019-325 “Diverso da chi?” Modulo “Diversità culturale” (intercultura e diritti umani), destinato alla classe III A della Scuola Secondaria di I Grado G. Verga, docente esperto prof.ssa Laura Lemmo Gallo, docente tutor prof.ssa Angela Mazzeo, il 21 ottobre 2021 gli alunni hanno incontrato Flore, di origine camerunense richiedente asilo, accompagnata dall’interprete di lingua francese dott.ssa Concetta Catalfamo che ha spiegato agli studenti che cosa sono e di cosa si occupano i Centri di Accoglienza che fanno parte del SAI, in particolare quello con sede a Rodì Milici, gestito dalla Cooperativa Sociale “Azione Sociale”.

L’obiettivo dell’incontro è stato quello di promuovere la percezione empatica, sensibilizzare al riconoscimento e all’accettazione dell’altro come una risorsa, scardinare i pregiudizi e i luoghi comuni al fine di favorire l’integrazione e lo scambio culturale. Il contatto diretto con una profuga e l’ascolto della storia della sua vita ha stimolato gli studenti a riflettere, interagire, fare domande e prendere appunti. Erano presenti all’incontro la Dirigente, dott.ssa Carmela Pino e la vicaria prof.ssa Maria Maiorana. Si ringrazia il responsabile del Centro di Accoglienza SAI di Rodì Milici, Omar Caccamo, per aver accolto la proposta della prof.ssa Laura Lemmo Gallo di concedere un incontro con un/un’ospite del Centro di Accoglienza. Un ringraziamento va anche alla prof.ssa Francesca Abbriano per aver fatto da tramite, nella fase iniziale, con il Centro d’Accoglienza e alla prof.ssa Domenica Saja per aver aiutato gli alunni a tradurre in francese un pensiero di ringraziamento rivolto a m.me Flore.

Riportiamo di seguito il racconto in prima persona scritto dall’alunna Karol Crea, che si è immedesimata nella persona di m.me Flore e ha raccontato, usando l’immaginazione, la sua terribile esperienza.

Sono Flore, migrante richiedente asilo
Sono Flore, camerunense di 28 anni, ho due figli in Camerun. Ho lasciato il mio Paese nel 2017. Da 6 mesi condivido un’abitazione con il mio compagno, nostro figlio e altre due famiglie a Rodì Milici, ospite del SAI (Sistema Accoglienza e Integrazione, ex SPRAR).
Oggi mi trovo in un collège (in Italia, Scuola Secondaria di Primo Grado), perché sono stata invitata a raccontare la mia storia, la mia testimonianza da migrante. Magari gli studenti non potranno capirlo a fondo, è impossibile farlo, ma questo incontro sarà utile, servirà loro ad aprirsi al diverso e a pensare che magari quel “diverso” ha visto cose che non si possono nemmeno immaginare, ma è ancora una persona normale con cui si può sicuramente dialogare. Bene, in questo caso, io sono il diverso.
Entro in aula e saluto gli studenti e le insegnanti, poi aspetto che Concetta finisca il discorso introduttivo. Illustra di che cosa si occupa il progetto SAI, specifica la differenza fra immigrato, profugo e rifugiato, in pratica mi spiana il terreno. Descrive il migrante dicendo che non ha libertà di scelta del luogo in cui dirigersi, scappa dal proprio Paese, lascia tutto e tutti e, arrivato nel primo Paese che trova, se arriva, è costretto a ricominciare la propria vita da zero, a trovarsi un lavoro, imparare una nuova lingua, a comprarsi una casa e ad adattarsi a un nuovo ambiente. Spiega, in particolare, quanto sia difficile il momento in cui un migrante compila il modello C3 per la richiesta di protezione internazionale, perché contiene informazioni strettamente personali e verrà esaminato da una Commissione territoriale preposta. La stessa Commissione ascolterà poi anche la sua testimonianza e, infine, deciderà se concedergli la protezione della durata di cinque anni. Io ancora non ho ricevuto risposta dalla Commissione, quindi sono preoccupata che qualcosa possa essere andato storto. Per il momento ho il codice fiscale e la tessera sanitaria per ricevere le prestazioni sanitarie essenziali a parità di condizioni con il cittadino italiano. Chi ottiene asilo politico e lo status di rifugiato dovrà trovare una casa, un lavoro e per questo i Centri di accoglienza organizzano anche tirocini formativi. In questi giorni nel nostro Centro a Rodì Milici verrà una parrucchiera e faremo con lei un laboratorio, fare questo lavoro è stato sempre il mio sogno.
E’ il mio turno. Mi lascio prendere dal passato, do voce ai ricordi che sembrano rimpossessarsi di me. Torno a quando ero piccola, avevo dieci anni quando ho perso entrambi i genitori. La mia “nuova” famiglia  era composta da me, i miei fratelli e la famiglia di mio zio. Non siamo stati dei bambini spensierati e felici. Ero spaventata, era dura vivere senza i nostri genitori, ma alla fine io e i miei fratelli siamo riusciti ad accettare la situazione.
E’ passato qualche anno e tutto quanto mi è crollato addosso. Un giorno mio zio, insolitamente gentile, mi ha annunciato che da lì a poco avrei dovuto sposare un uomo molto più grande di me. Avevo quattordici anni. Non capivo, non volevo capirlo e non volevo accettarlo. Mi sentivo come se la vita volesse vedere fino a quando avrei resistito e io non le volevo dare questa soddisfazione. Non volevo crollare. Piangevo tanto, soffrivo, ma rimanevo la stessa Flore che ero, mi rialzavo e continuavo la mia vita. Ho preso la decisione di andare a cercare lavoro in Costa D’Avorio. Volevo fare la parrucchiera, come avevo sempre sognato. Dicevo a me stessa:- Devo andare via, ma ho sempre vissuto qua, non voglio lasciare la mia terra e non so nemmeno come fare! Nel mio Paese i diritti umani non vengono riconosciuti. Molti uomini e donne scappano con i propri figli in cerca di nuovi mondi dove poter vivere in pace, affrontano viaggi durante i quali mettono a rischio la loro vita, ma non sempre arrivano vivi e non sempre, pur arrivando vivi, poi sopravvivono e non sempre, pur sopravvivendo, riusciranno ad avere una vita.
Ho preso un autobus, ho camminato, e sono riuscita ad uscire dalla mia città. Le ho detto addio con il cuore e con lo sguardo. Ho intrapreso il viaggio, direzione nord-ovest.
In Costa D’Avorio ho iniziato a lavorare come parrucchiera per una persona da cui ricevevo pochi soldi. Ma è qui che ho conosciuto il mio compagno di vita. Dopo un po’ di tempo, insieme abbiamo deciso di raggiungere l’Algeria per trovare lavoro. Ci siamo affidati alle ultime persone di cui avremmo dovuto farlo, i mercenari, e abbiamo speso tutti i nostri soldi per attraversare il deserto. Non sapevamo di intraprendere un viaggio da cui non avremmo fatto mai ritorno. Da subito ci hanno fatto salire su un pick-up dove, in venticinque passeggeri, siamo rimasti ammassati e compressi, sforzandoci di farci spazio l’un l’altro. Abbiamo provato a replicare, a protestare, ma le armi in mano ai mercenari, seduti comodamente sui sedili alla guida dell’automobile, ci hanno fermato subito: le regole erano chiare e se non ti stavano bene allora avresti potuto essere colpito in fronte da una pallottola. Non era facile parlare o cercare di distrarsi, erano tutti freddi o esausti, riuscivo solo a stare vicino al mio compagno. Non c’erano domande, né emozioni. Ognuno di noi inseguiva un unico obiettivo, la sopravvivenza.
Il viaggio nel deserto è stato lungo ed estenuante, faceva caldo, il sole picchiava sulle nostre teste e non avevamo molto con cui riprendere le forze. Facevamo delle pause ogni tanto, ma il deserto sembrava infinito. Avevamo sete, avevamo bisogno di dormire e avevamo paura di dirlo, o meglio, avevamo paura di rimediarci un proiettile, quindi ci limitavamo a soffrire in silenzio. Ho visto gente morire sotto i miei occhi, ma per le altre persone l’unico scopo era sopravvivere e un uomo morto significava più spazio sul mezzo di trasporto. Immagini terrificanti che oggi mi permettono di dare il giusto significato alle cose.
“Sono mercenari, non danno valore all’uomo, non danno valore ad un’altra vita; ma non solo loro, in tutta l’Africa non esiste questo valore, il rispetto della persona come essere umano.” – spiego ai ragazzi che mi guardano catturati, mentre continuo a raccontare la mia storia.
Continuo a raccontare..
Siamo arrivati in un centro abitato. Qualcuno si è reso conto che eravamo giunti in Libia.
Ci hanno condotto in una casa comune, affittata illegalmente ai clandestini come noi, così abbiamo accettato l’offerta. Il padrone di casa subito ci ha chiesto l’affitto e ci ha minacciato in caso di insolvenza di denunciarci alla polizia. Eravamo stanchi di scappare, stanchi di dover dare tutto quel che avevamo al padrone, stanchi di quella casa dove il padrone e i suoi amici picchiavano le donne, senza motivo, e senza poter dire nulla. Se qualcuno si fosse messo in mezzo sarebbe stato ucciso probabilmente. Non era per questo che eravamo andati via dalla Costa D’Avorio, non era per questo che avevamo deciso di cambiare vita.
Un giorno il nostro padrone ha deciso di lasciarci andare. Avevamo due possibilità di scelta, attraversare il deserto oppure il Mediterraneo! Abbiamo scelto di attraversare il mar Mediterraneo su un gommone. Ero incinta di otto mesi e non ho retto alla fatica e alla paura. Sono svenuta. La mattina successiva siamo stati soccorsi dalla nave Sea Watch 3, gestita da un’organizzazione non governativa tedesca, utilizzata per la ricerca e il soccorso (SAR) dei naufraghi nelle zone antistanti le coste libiche. La nave ha attraccato nel porto di Lampedusa e, dopo un mese di quarantena, siamo approdati a Porto Empedocle.
Mi trovo in Italia non per mia scelta. Da quando sono qui succedono molte cose, la sosta a Lampedusa, poi il trasferimento ad Agrigento nel Centro d’accoglienza per profughi, la nascita di mio figlio. Non so la lingua, non ho conoscenze, non ho parenti o amici, non so dove andare. A Rodì Milici ho cominciato a fare amicizie, sono riuscita anche a trovare qualche lavoretto da fare come parrucchiera, ho imparato a capire l’italiano… ho imparato a vivere in questa nuova società insomma.
Ed eccomi qua. Io sono la stessa Flore che ha vissuto esperienze orribili, sono la Flore che si è salvata, sono la Flore che ogni tanto parla al telefono con i suoi figli di 12 e 16 anni rimasti in Camerun. Sono la Flore che ce l’ha fatta, sono la Flore che ha sognato la libertà e ho fatto bene perché l’ho ottenuta.