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“in questo borgo il mio fiato agonia di miti il domani è sommerso nei tuoi occhi la speranza ha il colore dei limoni”.

Ringrazio il Prof. Aliberti perché attraverso la sua poesia mi ha permesso di esprimere certe mie visioni critiche, poetiche e letterarie.

Carmelo Aliberti è poeta della poesia dialettica esistenziale. La dialettica esistenziale è una visione della vita che parte dalbpresupposto montaliano che la vita è ardua, la vita difficile, c’è sempre davanti a noi “una muraglia che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia”, ma ciò non ci deve portare a desistere dalla ricerca di un superamento della muraglia stessa, anzi, più sono gli ostacoli, più il nostro Io si deve fortificare e deve proiettarsi avanti in una tensione agonistica.

Dietro la dialettica esistenziale si nasconde un pessimismo dialettico, un pessimismo di chi attraverso la negazione del reale, cerca di affermare un io che tende sempre e comunque alla ricerca di una difficile identità tra sé e il mondo; da ciò si deduce la presenza del linguaggio della dialettica: così il linguaggio, la cui semantica è articolata tra visioni negative, ove il poeta si aggira “tra fosche pareti sotto la cupola di altri cieli” in una vita impregnata di tetraggine, ma nel contempo va sempre alla ricerca di nuovi approdi, va alla ricerca di miti, seppure in agonia, va alla ricerca di arcobaleni, va alla ricerca della speranza. È un cammino difficile e tortuoso che il poeta ha già espresso fin dal ‘68, con “Una Topografia”, in cui Aliberti ha cercato, giovanissimo, di ricreare una sorta di renovatio in una società che già sentiva il peso dei mass-media e del consumismo. Appunto, già come dicevo, in quest’opera “Una Topografia”, si coglie il primo esempio di dialettica esistenziale. Un testo che già si fa interprete di questa visione della vita, “In questo borgo”, un testo semplicissimo, molto duro dove il poeta si esprime in prima persona; “in questo borgo il mio fiato agonia di miti/ il domani è sommerso nei tuoi occhi/ la speranza ha il colore dei limoni”. Già in questo testo del noviziato poetico di Aliberti si evince un triangolo che sarà sempre presente nella sua poesia.

-Il primo elemento del triangolo è il borgo, metafora della Sicilia, terra desolata, terra dimenticata.

-Il secondo elemento del triangolo è l’agonia di miti, dove attraverso l’ossimoro ontologico “agonia di miti” si deduce subito la compresenza del linguaggio dialettico, l’agonia che nega il mito attraverso il recupero di altri e atavici valori che afferma, ma spesso nella evoluzione della poesia di Aliberti c’è una nota affermativa;

-infatti la speranza ha il colore dei limoni: sono “le trombe d’oro della solarità” di Montale, sono la freschezza, la genuinità, la difficile ricerca di un’autenticità, di una dimensione esistenziale contorta e difficile.

Questi tre elementi si snodano in continuazione e già, sempre nella raccolta “Una topografia”, si ripresentano sotto vari aspetti in un altro testo, il cui titolo è “Tra le pareti dell’anima”, un testo, in cui il dolore esistenziale che si esprime attraverso “il brulichio insensato del niente e dell’immenso” si perpetua nei logoranti dubbi amletici in merito alla interlocuzione con un passato che sembra essere un sogno e l’azione che resta sola una speranza: c’è il rovello metafisico, c’è il terremoto interiore, ma compare anche la prima patina del Novecento di Aliberti, ove con il termine Novecentismo si allude ad una visione della vita scheggiata, lacerata e interiormente tormentata da forze contrastanti, ma c’è anche, grazie alla sua attività di critico letterario, la conoscenza dei grandi nomi di fine Ottocento e del Novecento letterario e una intertestualità che porta Aliberti a comunicare con i poeti che l’hanno preceduto; infatti, in questo testo “Tra le pareti dell’anima” compare l’allusione alla pagina bianca, l’allusione al foglio bianco, al contrasto che fa male, che fa molto male, tra il sentimento che urge e la difficoltà di trasformare il sentimento stesso in parola. Siamo sulla scia del Decadentismo francese di fine Ottocento, sono tematiche presenti in Baudelaire, la crisi del foglio bianco in Mallarmè, e la lotta che l’artista, il musicista, lo scultore deve fare attraverso l’ispirazione, attraverso il sentimento, l’idea, l’emozione e la sua traduzione in arte. È un grande prestito che Aliberti ha recepito dal Novecento e che lo ha portato a sentire l’atto poetico come una via di mezzo tra una disperazione e una catarsi.

Sempre nell’ambito di questa raccolta, si presenta un altro tema dalla matrice impressionistica, la rabbia dell’idealista che deve scontrarsi contro una società che crede solo nel dio denaro e che crede solo negli ideali della plutocratica. Da qui le tinte forti e toccanti di Vietnam, una poesia in cui il Vietnam non è solo il momento storico di una guerra avvenuta tra il ‘62 e il ‘72, ma il Vietnam è espressione di una guerra quotidiana, che l’uomo Aliberti è costretto a combattere contro una società che vomita parole, ove l’ascia del potente domina sui più deboli, ma soprattutto il Vietnam di Aliberti si rivela come l’espressione del crollo di ideali di natura laico-illuministica, molto presenti nella cultura del primo Novecento nel circolo gobettiano, nel cui ambito nacquero i primi “Ossi di seppia” di Montale: il suo Vietnam è contro ciò che frantuma la ragione, ma ecco la dialettica dietro la negatività: il poeta resta sempre sulla frontiera, per cui la poesia si conclude con la forte immagine della

“….finestra illuminata nel buio

che vacilla sul fiume della storia”.

La finestra diventa in Aliberti la metafora di chi si affaccia sempre sul mondo che lo circonda, una finestra che cerca di apportare una luce nelle tenebre: sono immagini forti, attraverso la figura dell’ossimoro che diventa espressione di un’azione dialettica dell’esistenza illuminata nel buio della storia. C’è sempre questa cognizione attraverso il divenire e la volontà di andare avanti. Infatti che ci sia questa linea interna si deduce dalla raccolta che segue: Il giusto senso, ove “il giusto senso” è la ricerca della ragione: il poeta non vuole accettare assolutamente che la vita e l’esistenza debbano essere solo e soltanto irrazionalità, forme opache e cannibalistiche, e quindi, ancora una volta la lotta si presenta con una rabbia espressionistica che si esprime con stile nominale, sostantivi, aggettivi, compare la figura retorica dell’anafora che poi ritornerà nella produzione futura “scrivi/ scrivi/ scrivi”, quella che il poeta ripete con ritmo ossessivo, martellante sempre sullo stesso concetto, i toni diventano apocalittici, oracolari. Siamo nel campo dell’apostrofe, dell’invettiva violenta nei confronti dei cappelli di piume, nei confronti di una “storia incestuosa”, “di una febbre irreversibile” che rapisce l’uomo. E Aliberti diventa l’uomo-rana, ecco la sua metafora; l’uomo che continua a vivere seppure nel limbo della vita; l’uomo che non demorde, l’uomo che attraverso una sindrome eteromorfica si sente vicino alla rana, ma anche vicino alla “coda spezzata” di una lucertola, un uomo che pur in una sindrome dendromorfica si sente parte integrante di una natura, ove il cielo rotola in lembi di cristallo, ove ci sono i rami stravolti dalla sera.

Una raccolta che, a mio avviso, determina il netto passaggio dall’ispirazione sicula, mediterranea, ad una visione più problematica dell’esistenza: con “C’è una terra”, siamo nel 1972, in questa raccolta il registro poetico, si è evoluto; prima il poeta scriveva in versi liberi, ora compare il settenario, compare il novenario, compare l’endecasillabo, le strofe sono di più ampio respiro e presentano un’architettura più complessa. Interessante l’esergo rousseauiano: l’uomo è nato libero, ma dovunque è in catene, é un riferimento al libro di Rousseau “L’origine della disuguaglianza tra gli uomini” in questo senso Aliberti si allinea con la volontà di una forte libertà dell’uomo. In questa raccolta compaiono immagini che sono relative alle figure stesse del poeta in se stesso, immagini che mi riservo di approfondire unendole ad altre.

Ma, in questo momento voglio soffermarmi su un altro testo della raccolta che si intitola “Ora l’arco”, ove ancora una volta si ripropone il dissidio esistenziale tra l’assenza e la presenza: l’assenza si deduce nell’immagine del “ragno che tossisce nelle arterie”, la figura del ragno è spesso presente nelle poesie di Aliberti: il ragno compare quando lui parla della sua “penna confitta tra le dita di ragno”, il ragno compare quando lui parla delle tele del ragno, già era presente nel giusto senso e qui si ripropone; il ragno come metafora, compare in un’accezione negativa. Il ragno con le sue fitte tele assolve le finalità di irretire, inventare, il ragno tende a far crollare la tensione cognitiva dell’intellettuale. Da qui la lotta contro le tele che sono spesso subdole e inconsce e quindi cita il desiderio di andare “oltre le cime del libeccio”, il desiderio di creare una nuova umanità dove, scrive il poeta, “è tempo di messaggi non di lutti”. E’ questa la componente dialettica, perché il pessimismo quando è nichilistico, rinunciatario, ti porta a dire che tu sarai un perdente, ora e sempre. Siamo nelle immagini di “Canzone d’autunno” di Verlaine, siamo nei toni smorti di tardo Ottocento o di certe situazioni crepuscolari: no, qua c’è fortissima la lezione foscoliana, Foscolo dei Sepolcri:

“…e me dei tempi sian l’amore/É fan

me per diverse genti ir fuggitivo/ me che ami le muse del mortal

pensiero”.

Foscolo respira, ma anche Leopardi, non certo il Leopardi tanto bistrattato, ma il Leopardi di “Tristano e un amico”: siamo nel 1832, Leopardi che si fa depositario di una filosofica dolorosa, ma vera; è il rispetto della dignità, è il recupero della grande lezione dei maestri della nostra poesia novecentesca, c’è la presenza di Ungaretti, che subito riprende il viaggio/ il superstite lupo di mare, (dopo un naufragio): la vita è fatta di naufragi, ma deve continuare, è la sfida al labirinto di cui parlava Calvino, il labirinto del silenzio, il labirinto dell’incomunicabilità, o quel “piccolo testamento” che ci ha lasciato Montale, quando ci parla di tracce madreperlacee, di fiammiferi che possono reggere “all’urto dei monsoni”.

In quest’ottica, Aliberti ha molto giocato adesso l’intertestualità con i grandi poeti del Novecento. Ed è su questo che voglio soffermarmi e vorrei analizzare in contemporanea alcuni testi tratti da varie raccolte: un primo testo è” La fine dei poeti”, la raccolta “C’è una terra”;

“La sera di marzo muore nel Tirreno

il gesto rifiuta la parola

già sbandi nel vuoto siderale

con le croci del Sud in processione

nel tuo lamento di vivo forato dalla sillaba”…

”Un vento stipendiato ti comunica

la fine dei poeti. Muto valuti l’annuncio funerario

maledici l’attimo trafitto nelle tempie

ma cosmica è la luce in cui ti perdi”.

”La fine dei poeti” è il Novecentismo mentre l’Ottocento ci aveva regalato la figura del poeta-vate, depositario dei miti imperituri della prima nozione dell’Ottocento romantico e la figura del poeta mistico (alludo al Romanticismo in Germania, Hoderlin, Novalis, o il Decadentismo con Rimbaud, la figura del poeta-veggente), Aliberti non crede in tutto ciò, è cosciente che nella società tecnocratica non c’è più posto per i poeti; ed ecco che rivolge la poesia della prima parte alle croci del Sud “un lamento di vivo/ forato dalla sillaba”, la parola poetica ecco che allude a “un vento stipendiato”. Aliberti si è tenuto sempre lontano dai vari business che hanno spesso involuto la poesia, tutto risolto a pubblicità, tutto risolto a facili guadagni, cosciente di ciò; ma ecco il “ma”, il “ma” è la transizione dialettica, ove il “ma”, la congiunzione avversativa perde la sua componente morfologica per ridursi ad elemento ontologico, il “ma” è la forza del poeta che non si vuole arrendere; infatti la poesia conclude, “ma cosmica è la luce in cui ti perdi”. Si, lo so, che la società è quello che è, ma io continuo lo stesso a credere.

Una situazione analoga compare ne “La vetrina illuminata”, sempre tratta dalla stessa raccolta:

“il tempo si è ucciso sul tuo viso

io sempre dalla pena di vivere scheggiato

nell’ora cruenta dipano

la pellicola breve di un’età

parlo tra le labbra per salvarmi

dal nulla e rimanere trafitto nel cerchio della luce

Così scrivo, contesto con furore la vita

grido, spero, mi nascondo

dentro un lembo vigile del cuore

e nella bianca prigione sento alitare

la carezza del tuo tergicristallo”.

Ecco che si ripropone ancora una volta il contrasto interiore: da un lato la pena di vivere, il male di vivere che ha segnato la nostra poesia tra le due guerre, dal primo Montale, al primo Luzi, ad Ungaretti, una sofferenza che si è espressa a fortissimi livelli nell’ambito della letteratura europea,” La morte a Venezia”, L’”Ulisse” di Joyce, tante opere di Kafka, e qua ecco il poeta” trafitto nel cerchio della luce”; questo cerchio della luce é la lampada che illumina quel foglio bianco che resta sempre tale nella sua verginità, e che il poeta stenta a trasformare in linguaggio poetico, ma dice: “scrivo, contesto con furore”, resta sempre pronto e tutto ciò si ripropone in “Caro dolce poeta” del 1980 e attraverso metafore calviniane, “i giorni dell’odio e del dolore”, “sul sentiero dei nidi di ragno”, attraverso queste metafore calviniane avviene la poesia, attraverso una condanna “del patto di Marx con Dio”, attraverso la spersonalizzazione dell’uomo alla catena di montaggio, attraverso l’anafora ossessiva “scrivi, scrivi, scrivi” il poeta giunge alla parte finale, ove, pur nell’incontro che vive nel pieno di quella sardana infernale montaliana, resta sempre comunque presente a se stesso.

“Già la nube dell’Apocalisse incombe

sugli occhi del tempo e della storia

già la lava del tempo urla l’ora

di verità, verifiche assolute

ed io ti giuro rinnegherò il mio Dio

distruggerò nell’arena il bue d’oro

abbraccerò il fuoco del cilici

quando nelle parole del silenzio

mi parlerà il senso della tua vera libertà”.

In una stessa strofe il poeta insiste sulle nubi che ottenebrano l’Io, insiste su questa nube che bloccherà anche la storia, il poeta non vuole cadere, la tentazione è fortissima ma l’esempio foscoliano, come quando gli austriaci lo volevano comprare, e avrebbero dato, quando volevano dare gradi, onori, soldi, la direzione di una rivista, lui preferirà l’esilio, perché era per il no, non per il compromesso. Ed ecco che Aliberti dice “rinnegherò il mio Dio” perché è uomo, ci sono le tentazioni striscianti del potere e del sistema, ma il poeta ritrova se stesso, nell’ascolto della propria voce interiore é un cammino che si concluderà con Il pianto del poeta, quando il poeta, ecco, dopo le immagini di miti decaduti, dopo la nostalgia di un tempo privo di fusi e di arcolai, espressione di una autenticità, di una veridicità, dove vi è la constatazione che i tempi hanno devastato ogni certezza, il poeta ritrova ancora se stesso, parla con il “tu”, ti dice “…non chiedermi vibrazioni di luce”, perché ha la coscienza di essere senza aureola, ma se non può salvare l’umanità, perlomeno salvare se stesso. Ed ecco le immagini aeree, le immagini smaterializzate, pregne di una semantica intrisa di fede. E Aliberti è un uomo di fede, ma non la fede religiosa che pure esprime nel “Dio del nulla e del dolore”, la fede di chi, ormai superati i 60 anni (ricordiamo che Aliberti comincia a scrivere nel ‘67), oggi siamo nel 2002, superati i 60 anni, resta sempre ancorato agli ideali di un tempo. Ed è con queste immagini che io mi congedo da questo incontro:

“Io nel volo dei gabbiani

aspetterò il risveglio delle rose

tra i miraggi degli stupori mattutini

e su sindoni di pietra

berrò le perle colorate dell’infanzia

in attesa che dentro la nuda anima

risorga l’alba, l’azzurra alba di Dio”.

 

Francesco Puccio

 

Francesco Puccio è docente, abita a Palermo dove ha insegnato e dove vive. Storico e Critico della Letteratura Italiana, è autore dell’Antologia della Letteratura Italiana dalle Origini al Novecento in 5 volumi e 5 allegati. Nella realizzazione della sua imponente opera, ha utilizzato le indicazioni ministeriali sulla nuova didattica, arricchita da contributi della sua straordinaria conoscenza letteraria e storica delle letterature europee. È  autore del saggio brillante “Carmelo Aliberti, Poeta della Dialettica Esistenziale” (Bastogi Editrice Italiana).