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Riceviamo e pubblichiamo integralmente una recensione curata dal Prof. Carmelo Aliberti del libro “Stalag 307, Diario di Prigionia” scritto dal Sen. Carmelo Santalco, che oltre ad essere il politico ed amministratore che abbiamo conosciuto fu un vero uomo di cultura. Buona lettura a tutti.

Vi chiederete perché abbia atteso trentacinque anni per pubblicare
questo diario della mia prigione. Ho ritenuto di dovere conservare
gelosamente per me e per i miei figli i ricordi di incredibili
sofferenze, che hanno inciso profondamente sul mio modo di concepire
la vicenda umana. Ho conservato questi frammenti, su pezzetti di
carta, che sono riuscito a nascondere, considerandoli parti integranti
della mia vita.

Anche quel poco che ho salvato di altri scritti, come la lettera ai
giovani e le meditazioni, pensavo avrebbe incontrato l’indifferenza di
chi non ha vissuto tra i reticolati tedeschi. La terribile minaccia di
una nuova, e forse ultima, guerra che coinvolgerebbe tutta l’umanità,
il dilagare del terrorismo, che semina strage e lutti, particolarmente
nel nostro Paese, il disordine morale e lo sfrenato egoismo della
nostra società, la caduta di ogni valore, dimostrano come, ad appena
trentacinque anni abbiamo dimenticato i gravissimi sacrifici e gli
immani disastri causati dall’ultimo conflitto mondiale. Queste amare
constatazioni mi hanno invogliato a dare alle stampe ciò che è rimasto
di quelle carte ingiallite per richiamare alla dei più anziani e
portare a conoscenza dei giovani le gravissime conseguenze di quella
guerra fratricida, perché siano di monito ed inducano tutti gli
uomini, dai più umili ai più potenti, ad operare perché non vengano
disperse la pace e la libertà, conquistate a pezzo di tanto sangue, e
si ritorni a quei valori morali e religiosi, che sono condizione
indispensabile per il progredire civile della nostra società.

PREFAZIONE

prigioni ottocentesche nelle quali Silvio Pellico aveva ricordato la
sua lunga personale vicenda di sofferenze nel carcere austriaco.
Limpidità di stile e altezza morale, ma la storia di un uomo.
All’indomani delle due guerre mondiali è venuto sviluppandosi un
genere letterario che non aveva precedenti: i “Ricordi di prigionia”.
Lo stile e l’oggetto di tali ricordi è ben diverso da quello delle Mie
Invece, nei ricordi di prigionia è protagonista non solo l’individuo
ma anche il gruppo, la massa. Vi è un coro, vi è il racconto di una
sofferenza collettiva con tutte le sue possibili totalità. E la storia
non di un uomo ma di uomini, di una comunità sofferente. A ciò vien
dato di pensare leggendo le nitide ed eloquenti pagine dei “Frammenti
di un diario “di Carmelo Santalco che ha il grande merito di evitare
due pericoli nei quali può facilmente incorrere l’autore di ricordi di
prigionia: la retorica del dolore, l’esibizionismo non ha collocazione
in queste pagine nelle quali non si confonde la storia con la
fantasia, non si orpella la realtà con fronzoli utilizzati ad uso e
consumo del protagonista o degli altri personaggi dell’oscura
tragedia. Tutto appare in scena, e scivola via con la naturalezza di
chi, più che essere soggetto operatore del suo destino, è soggetto
immerso e rassegnato in una vicenda storica che lo sovrasta e lo
travolge. Di fronte ad essa il cristiano piega il capo nella
rassegnazione e nella preghiera ripetendo il “Fiat voluntas tua”.

Lo stile del Santalco è più uno stile morale che uno stile letterario.
Letterariamente non vi è che una trasparente schiettezza che bene si
addice a questo tipo di ricordi. Ma la coscienza cristiana
dell’autore, della quale si sente in ogni pagina vibrare un’eco
profonda, vivifica tutto il tessuto del racconto alimentandolo con
risorse vive e incomparabili perché attinenti alle profondità della
vita spirituale. Nella lunga storia della peregrinazione, della Grecia
alla Polonia alla Germani, nella “Via Crucis” della cattività alla
liberazione. Carmelo Santalco emerge dal gruppo dei sofferenti nel
fisico e nello spirito per la sua fortezza d’animo di fronte alla
sofferenza. Ne vagone ferroviario, nella tenda, nella baracca, nello
spiazzo per la “conta”, egli si distingue con un incoraggiamento buono
e con la capacità di dire parole di conforto non meno utili
dell”atteso “pacco “con il quale si calma la prepotenza della fame. Il
segreto della resistenza morale, nel vortice dei dolori fisici, è
duplice: la fede di Dio; l’amore della famiglia. Dio è sempre
presente. Il cristiano sa che Dio aiuta i sofferenti, che dice “beati
coloro che soffrono “, ed a questa certezza cristallina egli si
attacca con fede, speranza e carità. Non manca alcuna delle virtù
maestre. Si potrebbe dire che in questa miseria fisica sono presenti
tre mondi: il mondo della prigionia con tutti i suoi dolori è
sottoposto al mondo della carità divina dalla quale si attende
conforto vivificante. Un terzo mondo si profila sempre all’orizzonte,
non nelle nebbie dei ricordi ma nella sostanza confortatrice dei
sentimenti: il mondo della famiglia con il suo prezioso tessuto di
affetti. “Per crucem ad lucem” è il tema di una delle meditazioni
finali che il Santalco annette al Diario. Ma noi diremmo che è il tema
di tutta questa sinfonia di un profondo dolore umano spiritualmente
consolato e illuminato. Vi è nell’anima dell’autore una vocazione
religiosa di profonde radici che, anche nei momenti nei quali sarebbe
comprensibile la disperazione, insegna a soffrire con conforto
pacificante. Si distingue il dolore della città di Barabba con i fili
spinati dal dolore espiatorio e redentore del Golgota.

Il motivo dominante dei questi ricordi che si esprime, fra l’altro,
senza ghirigori stilistici o con argomentazioni cerebrali, è la fede
che alimenta la fiducia e che, nelle ore della prova, dà un senso
concreto alla vita e alla morte. Eppure caratteristica in questo
“Diario”la compresenza religiosa del mondo dei vivi con quello dei
morti. La città dei vivi, assediata da fili spinati, appare non
raramente come una città di moribondi, come uno studio di passaggio ad
altre città, come una agonia che vede nella morte non una catastrofe
ma una liberazione. Anche in questa alleanza fra vivi e i morti, in
questa permanente meditazione sull’evento di un trapasso sempre
vicino, tutto il mondo delle sofferenze acquista un carattere
spirituale in cui il cristiano sente la grande verità del mutatur
tollitur.

Il conforto della Messa, della Comunione e perfino della Cresima, che
viene amministrata al Santalco proprio nel campo di prigionia,
stabilisce una specie di legame permanente tra l’oggi e il domani, fra
il relativo e l’assoluto, fra il temporaneo e l’eterno. Il senso
religioso della sofferenza fa del soffrire stesso una forza non
oppressiva ma costruttiva; prende l’uomo nel dolore, e lo porta fuori
dal dolore. Tutto è sotto zero nel campo di prigionia. Ma non è sotto
zero il pensiero di Dio, e l’Assoluto giganteggia incrollabile sulle
rovine del mondo delle cose transeunti. Accanto alla fede, la famiglia
è presente più che mai come una realtà spirituale, ancor prima di
essere una realtà sociale. Tema dominante nella disperata malinconia
della baracca. L’attesa di notizie da casa. Si vuole sapere, per
trovare conforto nel sapere. Gli anomastici di famiglia sono ricordati
come una festa del campo. La lettera finale del volume è rivolta alla
madre e si conclude con una affettuosa “buona notte”. Un documento dal
quale sgorga pienezza di affetto.

La scena del soldato che muore chiamando la mamma prima di esaltare
l’ultimo respiro, suggerisce parole tanto semplici quanto
profondamente cristiane: Chi conforterà la mamma dell’ufficiale che
muore di fame? “Anche il ricordo del padre è sempre affetto per la
famiglia di provenienza, ma ritorna spesso il “ricordo di Ninetta”,
cioè dell’affetto per la sposa di domani, per la famiglia del futuro
la quale si allinea a quella del presente e del passato. In questo
mondo emotivo, le notizie a lungo attesa sono un farmaco per le
sofferenze. Talora i desideri si confondono con i sogni, senza che il
mondo immaginario prenda la mano all’autore. È sempre presente
l’attaccamento ai “cari”, e doloroso è anche il distacco da un
orologio personale per acquistare un pezzo di pane. La ricerca del
pane, della bustina di latte in polvere, del cucchiaio di carote e una
ricerca che mette permanentemente in moto il mondo della “fame nera”.

Ma l’animo cristiano non cerca nel ricordo del tempo felice una
evasione della miseria; al contrario, vive nella miseria del boccone
di pane per guadagnarsi un tempo felice. Anche le amare tristezze
sulla cattiveria degli aguzzini non suscitano odio, ma stimolano
sentimenti di carità.

La gioia trabocca nel momento della liberazione. “Si ritorna uomini”
scrive il Santalco quando i tedeschi abbandono il campo e appare al
confine del reticolato la figura di un maggiore canadese, avanguardia
dei liberatori. Eppure, quanto è ancora lunga la strada dal campo di
prigionia per arrivare attraverso paesi e montagne, strade e ponti,
alla terra di Sicilia che Santalco bacia nel momento in cui mette il
primo piede sul suolo natale. Nell’ Appendice l’autore pubblica,
opportunamente, accanto alla lettera alla madre, una lettera ai
giovani ai quali dice: bisogna lottare, bisogna resistere, non venire
meno al proprio dovere, specialmente quando è duro. Io direi che tutto
che questo libro è una lettera ai giovani. Anzi, guardando al nostro
tempo, direi: una lettera della gioventù che ha sofferto alla gioventù
che fa soffrire. In ciò l’attualità della pubblicazione del “Diario”.
Non nostalgie, ma itinerari di vita cristiana che bisogna percorrere e
ripercorrere perché la vita stessa sia degna di essere vissuta. Questa
storia di sofferenza per nulla, vantata, ed anzi raccontate con
modestia, ha avuto il suo epilogo, all’indomani della guerra,
nell’attività partecipazione di Carmelo Santalco a quella milizia
politica che rivendica i diritti della pace e della libertà oppressi
dalla vicenda bellica. Divenuto dirigente delle ACLI e della DC, il
Santalco ha combattuto le sue battaglie per l’autonomia del sindacato
dei ferrovieri, e dopo aver coperto cariche amministrative, è stato
per ben tre legislature deputato all’ Assemblea regionale siciliana.
Eletto senatore nel 1972, fu riconfermato ne 1976 come pure nel 1979,
essendo chiamato ad essere pure membro del Consiglio d’Europa.
Successivamente entrò pure nel Governo in qualità di Sottosegretario.
Si ricorda ciò solo a conferma della stima che il Santalco ha goduto e
gode non solo sul campo di prigionia, ma pure nel libero agone.La vita
non si presenta mai a scompartimenti chiuse. Chi sa compiere il suo
dovere nella nelle tristi giornate della cattività, sa pure essere
all’altezza di un responsabile dovere nelle civiche contese.

Guido Gonella

INCIPIT

Troppo bella questa vita per durare a lungo, dissi al capitano
Moschetto, mattina dell’8 settembre 1943.

Avevo da pochi giorni, per del Comando della 11 Piemonte, abbarbicato
ai capisaldi dell’isola di Zante, ed ero stato distaccato al Comando
dell’Armata – Delegazione Trasporti e Collegamenti in Atene.

La nuova vita non sembrava fatta per me, abituata ai sacrifici ed alle
sofferenze dei reparti. Il capitano Moschetto, un insegnante di
Ragalna di Paternò, della provincia di Catania- richiamato alle armi –
che trovai alla Delegazione, alla mia considerazione, prese tutte le
precauzioni dei superstiziosi. La stessa sera alle ore 18:30 circa,
mentre mi accingevo a preparare i documenti dei connazionali (la
maggior parte civili), che alle 20,30 dovevano partire con la tradotta
k diretta in Italia, squillava il telefono:

“Tenente, i nostri stasera potranno partire?

Chiesi chi fosse al telefono, si presentò un funzionario
dell’Ambasciata Italiana ad Atene.

Questi, nel ripetermi la domanda, fattami qualche istante prima, si
diceva convinto che i tedeschi non avrebbero fatto partire la
tradotta.Gli risposi che non ne vedevo i motivi ed egli di rimando “Ma
lei non sa che l’Italia ha firmato l’armistizio? Lo ha comunicato
radio Londra alle 18”. Telefonai la notizia al tenente colonnello
Zucchi, comandante la Delegazione Trasporti e Collegamenti, il quale,
pensando ch’io fossi caduto in una trappola tesa dai partigiani greci,
mi fece un cicchettone per telefono. Egli, solo dopo avere avuta
confermata la notizia dal funzionario dell’Ambasciata Italiana, che in
precedenza aveva parlato con me, si decise a comunicarla a S. E.
Vecchiarelli, Comandante dell’Armata Italiana. La conferma ufficiale
si ebbe più tardi alle 20, mentre eravamo alla mensa dell’Armata, col
comunicato di Radio Roma.

Trovandomi in licenza per esami in Italia avevo visto la disfatta
dell’esercito in Sicilia, le città italiane distrutte e quindi potei
comprendere pienamente la gravità del momento.

Non avevo ancora 22 anni. La notte dall’ 8 al 9 settembre il
Comandante della nostra Armata si incontrava col collega tedesco, il
quale, in cambio delle nostre armi pesanti esistenti nel territorio
greco, prometteva (con impegno, credo, scritto) di trasportare
l’Armata Italiana – la quale avrebbe mantenuto tutto l’armamento
leggero -in Italia. L’impegno, come era prevedibile, non fu mantenuto.
I tedeschi, dopo che ebbero in consegna le nostre armi pesanti,
bloccarono, con i loro carri armati. Le nostre caserme e disarmarono
completamente i nostri reparti, dai quali furono allontanati gli
ufficiali. I soldati piansero lasciando le armi; molti preferirono
renderle inservibili o consegnarle ai partigiani greci.

Il 14 settembre incominciarono a partire dalla stazione di Atene-
Larissa le tradotte di soldati e ufficiali italiani per destinazione
ignota, che i tedeschi si divertivano a chiamare Italia.Spettacolo
umiliante dinanzi ad un popolo che ci aveva avuti in casa da
vincitori! Alcuni ufficiali furono avvicinati da partigiani greci, i
quali mettevano a nostra disposizione denaro, abiti ed i mezzi
necessari per raggiungere il quartiere generale inglese, che avrebbe
provveduto, secondo la nostra volontà, o ad avviarci ai reparti
partigiani in montagna o all’imbarco su sommergibili che ci avrebbero
condotti In Sicilia. (Prima di allora mai avevano saputo che esistesse
in Grecia un quartiere generale inglese che coordinava l’attività dei
partigiani e dei paracadutisti!). Tre dei miei colleghi, tra cui il
ten. Demetrio Crupi ed il sottotenente Costantino Sebastiano,
riuscirono a raggiungere, il 26 settembre, detto quartiere generale ed
io ne ebbi conferma attraverso una loro lettera pervenutami a mezzo
dello stesso autista che li aveva accompagnati. Il 27 settembre rimasi
in albergo (al King George) a letto con febbre a 40-41, dovuta ad un
forte attacco malarico e mi alzai solo la mattina del 2 ottobre. Il 3
ottobre mattino i tedeschi mi catturarono assieme agli ultimi
ufficiali dell’Armata, fra i quali il generale di brigata Caliendo.
Nel pomeriggio dello stesso giorno prendemmo posto sulla 14 tradotta
in partenza da Atene 8 (fu l’ultima) ed incominciò così quel calvario
che in parte riuscii a descrivere in un diario del quale molte pagine
andarono perdute.

STALAG 307

Carmelo Santalco, nato a S. Marco d’Alunzio (Messina) il 5 novembre
1921, si laureò in Giurisprudenza, all’Università di Palermo.

Rientrato dall’ internamento nei lager tedeschi il 19 luglio 1945,
svolse attività sindacale dai prime del 1946 fino al 7 febbraio 1956,
data in cui venne nominato Consultore all’Amministrazione provinciale
di Messina e successivamente Delegato regionale (Presidente). Eletto:
otto volte Consigliere comunale; nove volte Sindaco della città di
Barcellona Pozzo di Gotto; tre volte Deputato regionale all’ Assemblea
regionale siciliana; Assessore regionale alla Presidenza della Regione
e alla Sanità ; Presidente dell’Istituto autonomo Case popolari di
Messina; per sei legislature Senatore della Repubblica;
Sottosegretario di Stato alle Finanze; Questore del Senato della
Repubblica per dieci anni.

Ha pubblicato:

La vittima del sistema (1969), Stalag 307 (4 edizione, 1980, premio
Città di Reggio Calabria e Maurolico, Premio Rhodis, Premio della
Cultura della Presidenza del Consiglio,ed altri importanti
riconoscimenti. E’ doveroso evidenziare che il libro Stalag 307, in
cui Santalco annotò lo strazio quotidiano del lager, fu inserito nella
collana “Scuola” della Bastogi Editrice Italiana, a cura di Carmelo
Aliberti ed adottato e studiato da migliaia di studenti che certamente
hanno acquisito un patrimonio di valori, sbocciati dalle ceneri dei
corpi bruciati nei forni crematori.

CARMELO SANTALCO

STALAG 307, Diario di prigionia,

BASTOGI EDITRICE ITALIANA,

COLLANA SCUOLA