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Abbiamo pubblicato nelle settimane scorse le prime tre parti della copiosa opera omnia ricevuta dal Prof. Carmelo Aliberti sulla figura del grande Andrea Camilleri. Dopo i cenni generali sulla biografia e sulle opere continuiamo ad addentrandoci nei tanti lavori dello scrittore siciliano con questa IV Parte. Buona lettura. 

I romanzi polizieschi del Commissario Montalbano

Nel 1994 esce, presso Sellerio, La forma dell’acqua, che inaugura una serie di romanzi, aventi come protagonista il Commissario Montalbano, seguito da Il cane di terracotta (1996), Il ladro di merendine (1996), La voce del violino (1998), Gita a Tindari (2000) e con Mondadori Un mese con Montalbano (1998), Gli arancini di Montalbano (1999), La scomparsa di Pato (2000), etc… da cui è stata tratta la fortunata serie televisiva.

Montalbano è un personaggio inventato dalla fantasia di Camilleri, anche se nella sua genesi hanno avuto una certa influenza il Ciccio Ingravallo del “Pasticciaio brutto de Via Merulana” di Carlo Emilio Gadda e alcuni eroi del giallo, come i commissari Sheridan e Maigret, trasferiti sulla scena televisiva dallo scrittore siciliano nella sua lunga esperienza di sceneggiatore. Si muove in una trama di enigmi pirandelliani e di complicati intrighi Sciascia ni. Egli è subito collocato sulla scena della località marittima di Vigàta (la Porto Empedocle dello scrittore), ha una fidanzata, Livia, che risiede nel Nord Italia e che ogni tanto lo viene a trovare; nelle sue indagini viene affiancato dal suo vice Mimì Augello, dall’agente Fazio e dal simpaticissimo Catarella, i più stretti collaboratori, dotati di virtù o di vizi, di abilità e di debolezze passionali.

Il nuovo personaggio

nasce nel secondo dei tre racconti lunghi de “La prima indagine di

Montalbano”, in cui, come giovane commissario, presta servizio a

Mascalippa, sperduto paese montano di una Trinacria sconosciuta,

affiancando il più anziano investigatore di razza Libero Sanfilippo.

Non ci sono delitti da scoprire, ma incomincia a delinearsi attorno al

giovane detective quell’atmosfera di ambiguità, in cui si

contestualizzeranno i misteri da risolvere del Montalbano maturo.

Montalbano è un commissario di grande ingegno con una innata abilità

nel dipanare trame misteriose e sorprendenti, obbligando anche le

circostanze più insensibili a venire allo scoperto. Le sue “dramatis

personae”, come osserva Nino Borsellino, sembrano improvvisamente

uscire con la parola da una tela romanzesca inesauribile come eroi ed

eroine del romanzo cavalleresco classico. Le sue indagini sono guidate

non solo dalla necessità di catturare il criminale, ma soprattutto di

individuare, sotto la cancellatura del tempo, il nucleo da cui è

scaturito il meccanismo del crimine, senza la pretesa di sovrapporre

alle caotiche trame delittuose, il progetto di un ordine ideale. Di

fronte alla morte naturale, Montalbano protende alla rimozione del

caso, rinunciando al ragionamento investigativo. Ma l’intrigo delle

matasse criminali, il commissario riesce a dipanarlo, senza concedere

al giudice la valutazione del reato, caricando o alleggerendo con

aggravanti o attenuando le verità conquistate. La sua non nascosta

professione di fede comunista non condiziona la sua azione di ricerca

della verità, dovunque si annidi, e la sua adesione alla contestazione

del ‘68 è stata successivamente autocriticata, accusando anche di

voltagabbanismo i leader di quel movimento che si sono insediati su

comode poltrone, determinandone il dissolvimento.

Il cane di terracotta

Il cane di terracotta rivela particolarmente una singolare procedura

investigativa, in cui si delinea una particolare filosofia della

tipologia di indagine del Mostro. Nel caso di un mafioso pentito, che

in punto di morte gli rivela un segreto che consentirà al Commissario

di requisire un carico di armi destinato alla criminalità, Montalbano

non si accontenta di ostentare il successo ottenuto, ma, ormai

profondo conoscitore dei per lui troppo banali sistemi della malavita,

viene tentato dall’ossessione di andare oltre il limite del crimine e,

come il Serafino Gubbio pirandelliano, tende a cogliere le ragioni

segrete del mistero del caso che circonda la scoperta del cane di

terracotta nella grotta a guardia dei cadaveri nudi di un uomo e di

una donna. A questo punto, prevale in lui una equilibrata filosofia

che lo spinge a un’accettazione consapevole di una più alta operazione

di giustizia, perpetrata dalla storia sulle misere passioni umane, di

fronte a cui ogni ulteriore ricognizione razionale diventa superflua.

Come ancora Borsellino osserva, Montalbano a differenza di Ingravallo

di Gadda che non riesce a muoversi su questo piano, i suoi gomitoli li

scioglie tutti, ma poi li riannoda togliendo al giudice la possibilità

di assolvere o punire. Bisogna tenere in una certa evidenza la

funzione del comico negli accidentati percorsi delle cose, dalla

lingua pasticciata di dialetto e italiano, in coalizione con le lingue

di altre aree nazionali. Comici sono anche i personaggi quando

risultano connotati dal parlato, comiche le situazioni imprevedibili,

quando si allontanano dai contesti tragici. Privo di indicazioni

comiche invece Montalbano, anche se talvolta è sopraffatto da qualche

debolezza di gola, senza lasciarsi “ubriacare” dal successo del suo

lavoro: anzi, egli vive momenti di amara ricomposizione interiore,

quando le sue inchieste sfociano nella scoperta di un teatro del mondo

come scenario delle incontrollate debolezze umane, sfociate

miseramente nel delitto o nella debolezza passionale che, con il

sopravvento della furia criminale, relegano l’uomo nel ghetto della

integrità di creatura superiore. Si percepisce, allora, un certo senso

di disagio interiore, per un’umanità che si è immiserita nella perdita

di sé, proponendosi agli altri come occasione di smarrimenti o di

disfatta etica. Né il commissario si ferma di fronte alle

falsificazioni immorali e disgustose dei segreti, quando attraverso la

strumentalizzazione di perverse vicende coniugali cerca di coprire la

verità sul commercio di droga, Montalbano non denuncia l’illegalità

delittuosa dei servizi segreti, ma si sfoga con il pestaggio di un

cinico agente che serve con orrendi misfatti le ragioni di stato, di

fronte a cui egli si sente inadeguato, un po’ per impotenza e un po’

perché prigioniero di un sistema che non consente delazioni

pericolose. Ma Montalbano è anche un personaggio dotato di una certa

fragilità interiore, soprattutto quando di fronte a eventi fatali,

come la notizia della morte del padre ne “Il ladro di merendine” o

durante il colloquio con un professore di filosofia capisce che le sue

disobbedienze personali nel sottrarsi a impegni obbligati, sono dovute

a un inconfessato malessere segreto che lo spinge inconsciamente a

tentare di annullare il male del mondo attraverso la fuga dalla

insensata quotidianità, condensata nell’interrogatorio finale del

professore Libero Pintacuda:

«Quando si deciderà a crescere, Montalbano?» In effetti, nella

profondità del suo “io” il commissario ha quasi rinunciato a capire il

senso profondo di quel volume di Zò o pagina “Metafisica dell’essere

parziale” (abbandonando il testo su un tavolo della casa di Marinella)

di quel dimenticato filosofo Carmelo Ottaviano, consapevole di non

poter riuscire ad approdare alla totalità dell’essere e soddisfatto

solo di essersi potuto accostare alla sua parzialità, come quando

terribili segreti spesso gli venivano rivelati attraverso

imprevedibili risonanze delle cose. Si veda, a proposito, La voce del

violino, in cui da un delitto apparentemente passionale, egli risale

attraverso le sconvolgenti suggestioni, quasi come segreti messaggi

delle note di un violino alla verità del suicidio del vero assassino.

Spesso, come nella Gita a Tindari, opera nata con l’inizio del Terzo

Millennio, anche se il Commissario opera nel complicato intreccio

della “trance de vie” del delitto, collegando trasgressioni

apparentemen te innocue di personaggi piccolo-borghesi, svela

strazianti retroscena di follie, che interiorizzate nel personaggio,

producono una sosta al suo ritmo veloce di esistenza e l’apertura di

un imprevedibile squarcio umanitario che riportano inopinatamente la

sua memoria all’elegia di scomparse stagioni che si ripercuotono poi

nelle sue indagini e nella ricomposizione dei fatti, per cui negli

sfoghi di riflessioni distruttive, seguite alla scoperta di una serie

di atti di follia, come causa del delitto Montalbano, innalza il suo

livello di personaggio che quasi sfugge al controllo dello scrittore,

confondendosi con una voce narrante che Borsellino collega con

l’allucinato racconto di Faulkner Omaggio a Emily o anche

all’“Americana di Vittorini”, in Una rosa per Emily. È la

rappresentazione di un momento in cui il personaggio si rifiuta

all’autore per cui lo scrittore per non soccombere di fronte al

personaggio deve forzarlo a uscire dalla vicenda nel suo tradizionale

ruolo, affidando al suo “respiro inebriante degli odori della notte”,

la rimozione di quel delitto, espressione di pura follia, e non di

mimetizzata e consapevole violenza. Il rifiuto di Montalbano diventa

esplicito nel racconto Gli arancini di Montalbano, quando lo scrittore

progetta di immergerlo in una orrenda “fiction” carnevalesca. Allora

il commissario suggerisce allo scrittore di fermarsi, perché «non è

cosa», concludendo: «Sto cercando di aggiornarmi, Salvo».

Da questo momento, si registra una certa svolta sul personaggio, per

cui Montalbano non è più il giustiziere, ma sembra indossare i panni

dell’uomo mite, anzi quasi dell’intellettuale-barbone, dominato da una

condizione edipica, che lo inducono a perplessità morali, come nel

caso del delitto del vecchio poeta il cui figlio diventa membro della

mafia, o come quando constata che l’omicida sta accanto alla tomba

dell’ucciso. Intanto, negli ultimi racconti, frequenti sono le uscite

fuori sede, quasi a suggerire una sorta di necessità di riflessione

freudiana, mentre torna frequente il tema dello specchio. Nell’ultimo

capitolo del grande poema poliziesco di Camilleri “La paura di

Montalbano” la parabola interiore del commissario diventa sempre più

inquieta e la sensazione della paura, trasferitasi ora in spirito di

rivolta verso l’assurdità di alcune vicende della storia attuale o

ripiegate nel guscio di una certa solitudine interiore, sembra voler

esprimere in maniera artisticamente meno griffata, la sensibilità

dello scrittore verso il dolore di un universo in vertiginoso e

demente mutamento, dove sullo scenario della letteratura sembra

proiettarsi l’ombra “lo scuro” dei nostri assurdi tempi, dominati

dall’iniquità, dall’intolleranza e dalla barbarie. Ne deriva una

ridimensione in senso più realistico e dimesso, una sorta di essenza o

diserzione del personaggio-inquisitore che, sembra voler suggerire

Camilleri, assieme allo scrittore, non ha che da scoprire negli

inganni occulti degli eventi solo la voce della sopraffazione

razzistica o l’incredibile forza del potere economico ormai vincitore

di ogni forma di resistenza intellettuale che ha relegato la funzione

della cultura a un ruolo di superflua subalternità. Partito

dall’esplorazione di una realtà di minime vicende popolari della sua

Sicilia, Camilleri si è proiettato nel passato, per scoprirne la sua

identità attraverso il susseguirsi epocale delle molteplici

dominazioni, responsabili di inauditi stupri sull’inermità delle masse

impotenti, scoprendo anche, negli interstizi delle occasioni di

esasperazione, i tentativi di un assurdo sogno di rivolta e di

capovolgimento di un destino di sconfitta. Tuttavia nel ritorno ai

tortuosi itinerari della modernità e post-modernità, nonostante le

surreali, comiche e talora farsesche operazioni di mascheratura

letteraria della tragedia siciliana, dentro cui lo scrittore spesso ha

avvolto le dolorose circostanze del cammino di un popolo, disperso in

diversificate manifestazioni di delittuosa follia, Camilleri, pur

innalzando in maniera universalmente esponenziale i livelli della sua

arte, con apparentamenti o primati su autori contemporanei affini di

altissimo spessore, come Gadda, Sciascia, Faulkner, Svevo, Vittorini e

di altre epoche, come Cervantes o il Folengo, etc., ci offre alla fine

un profilo di sé, trasferito nell’alter-ego del suo commissario, di

uomo che ha tentato di catturare nei labirinti del fitto mistero

cosmico, una scheggia di verità, con cui poter dar senso alla vita,

rimanendo, tuttavia, solo nella faticosa marcia verso il cielo

stellato di un’irraggiungibile utopia. Pur attraverso vie diverse, il

suo viaggio si rivela aspro e culturalmente elevato e complesso e può

essere accostato, per certi versi, con le dovute differenze di

percorso tematico e figurale, a quello di Bonaviri, ma continua in

termini più realistici e concreti l’avventura della letteratura, a cui

l’uomo non potrà mai rinunciare, se ancora ci si può illudere di poter

ritrovare in tale istituzione il respiro sublime dell’essere e il

senso più vero della vita.

Ma Camilleri non è solo l’ideatore di quella letteratura di consumo

teso a proporre intrighi di intrattenimento. Egli è uno scrittore

autentico che percepisce, nella propria dimensione interiore gli

sconvolgenti turbamenti e l’inguaribile sgomento dei nostri anni, in

cui le rincorse dell’apparire, del successo, del potere e del

protagonismo hanno sostituito quella simmetrica ragnatela di valori

che arricchiva il gomitolo degli alti valori dell’Essere, su cui in

ogni epoca era imperniato il senso più profondo della vita. Perciò,

nell’ultimo romanzo della saga del commissario Montalbano, intitolato

Il giro di boa, lo scrittore, fin da giovane impegnato nelle nobili

battaglie proletarie del partito comunista in difesa delle classi più

deboli, dopo i drammatici avvenimenti del G8 di Genova, in cui è

emerso il fantasma di una crudele dittatura, mascherata di democrazia,

rimane scosso dalla brutalità del potere insita nella sua fisiologica

fluenza contro le legittime proteste delle masse indifese che

pacificamente manifestano per la difesa dei fondamentali diritti

umani. Sono gli anni in cui si è registrata l’esautorazione del

Parlamento da parte di una strapotente maggioranza che, alle “leggi ad

personam” sacrifica ogni elementare diritto costituzionale, attraverso

cui la concentrazione capitalistica nelle mani di pochi si ripercuote

negativamente sulla crescente miseria degli italiani e le statistiche

ufficiali dell’Istat rivelarono che circa sette membri di famiglia si

sono talmente impoveriti, da non riuscire a superare la terza

settimana del mese, senza doversi indebitare con le finanziarie per

sopravvivere. Camilleri scrittore, nonostante la solida corazza

dell’umanesimo che lo sorregge, di fronte a tale doloroso scenario, è

invaso dallo scetticismo verso la storia che sembra aver annientato

l’evolutiva visione gramsciana sotto i colpi di una repressione

illiberale. Allora, affida al suo personaggio il proprio malessere

tanto da ridurre Montalbano a meditare l’abbandono della propria

attività investigativa, su cui pende anche il peso della sfiducia

verso l’istituzione giudiziaria, divenuta ufficio personale del potere

politico, che non può più garantire a nessuno la ragione del diritto.

Ma, mentre sta per imprimere “il giro di boa” alla propria vita, la

cronaca lo riassale con la propria tragicità sociale e umana e la

scoperta causale del cadavere di un clandestino torturato da qualcuno

che ha voluto “tappargli la bocca” riaccende in lui l’imperativo

categorico della giustizia e pure psicologicamente stanco si avvia

alla soluzione del nuovo caso pur tra l’intuizione di altri morti.

L’attenzione investigativa prima circoscritta e così isolata ora

espande la sua ottica di osservazione a intrecci perversi più profondi

su cui galleggia una società corrotta e la denuncia dello scrittore si

tramuta in una più penetrante investigazione della storia al fine di

smascherare i nuovi mostri che clandestinamente continuano a gestirla.

Dopo l’iniziale perplessità della critica che, per l’eccessiva

caratterizzazione linguistica locale, ignorò per dieci anni l’opera

prima di Camilleri, tanto che stesa nel 1967 fu pubblicata solo nel

1978 a spese dell’autore, oggi, le traduzioni delle opere dello

scrittore siciliano si ripetono velocemente a livello planetario, fino

all’estone al gaelico al giapponese e al catalano. L’operazione

linguistica intreccia sul marchio dialettale della promiscuità

quotidiana la struttura portante della lingua italiana del narratore

che pigmenta l’articolazione logico-espressiva regionale con le

arditezze dell’avanguar dia. Il procedimento si innesta nel più vasto

contesto sociologico dell’ultimo Novecento, quando alla progressiva

perdita di identità delle connotazioni archetipiche della cultura

delle masse, si contrappone una pungente nostalgia di recupero

dell’espressione dialettale per arginare i processi dell’omologante

globalizzazione e recuperare la purezza della propria verità. Perciò,

l’inversione del codice linguistico verso la rivalorizzazione delle

locuzioni vernacolari, in Camilleri sottende propensioni

identificative dell’emancipazione socio -economica e spersonalizzante

delle masse e in realtà corrisponde alla reale convivenza di una

diglassia regionalistica, su cui si imperniano fluttuanti ibridismi

espressivi, ricreati con lo straripante gusto inventivo

dell’immediatezza orale, fino a diventare straordinario strumento

significante di una paratattica leggibilità del reale. La diserzione

del narratore dagli specchi degli intrecci è solo apparente, in quanto

egli non si rivela solo come il regista delle messe in scena, ma anche

come l’invisibile suggeritore della reale interpretazione del lettore

in quel rapporto di magica osmosi che la letteratura ha il potere di

evocare. Siamo di fronte a una scelta linguistica che nel dinamismo

degli slanci semantici e nelle infestanti ondate di frasi o nella

preziosità, anzi rarità, degli intarsi localistici sembra istituire

connessioni labili nell’organizzazione del parlato che, tuttavia, alla

fine rivela una marcata adesione all’ordine che salda le strutture,

apparentemente scisse, nella omogenea tematizzazione finale del

periodo. Sia quando utilizza, in maniera anomala nella sequenza, il

sintagma attributivo o la localizzazione del verso in ossequio alla

stesura sintattica dell’oralità siciliana, sia quando procede a

concordanze pronominali o alla cattura di innesti estrapolati da altri

contesti letterari, lo scrittore riesce sempre a sigillare l’evento

costruttivo della creazione o della conversazione in un’efficace

simmetria concettuale, incorniciato in un equilibrato sistema

morfologico-sintattico-affettivo, attraverso cui la disfasia tonale

del discorso si sfalda e si ricompone nella tonalità omogenea del

colloquiare. Traspare dai procedimenti verbali un sicuro possesso dei

sistemi dialogati, certamente residuo della dimestichezza alla

teatralizzazione di Camilleri regista, in cui l’immediatezza della

registrazione narrativa si sottrae a ogni inciampante sosta

didascalica, per consentire la fluenza verbale e la sincronica

fruizione dei significati. Si rivela in ciò la vocazione di Camilleri

a una “letteratura di cose”, in cui meglio si riflette la tortuosa

architettura della logico-sintattico-concettuale della identità

popolare; occorre, tuttavia, rivelare che traspaiono, nelle confluenze

determinanti del narrato, inserti di una “letteratura di parole”,

particolarmente nelle lettere anonime, nei ritagli di giornale o

cartoline, o nei messaggi intimi e biglietti che frequentemente

irrompono nelle pagine o a trasmettere una confessione o a

epifanizzare un sentimento impregnato talvolta di quell’intonazione

dialettale che, se ricalca il teorema linguistico generale di

Camilleri, talvolta riecheggia le stravaganze scrittorie degli

ex-voto, appesi alle pareti delle celle vuote di Vincenzo Consolo,

trascritte da Enrico Piraino, barone di Mandralisca de Il sorriso

dell’ignoto marinaio, come acutamente osserva Mauro Morelli e come può

constatarsi nella pagine dello stesso scrittore .

Pippo amori mio adorato, gioia di chisto cari Pipuzzo adorato ca Fi

penzo che è notti o che è iorno e ti penso macari che è il iorno ca

viene appresso e doppo quello ca viene appresso ancora tu manco lo

puoi capiscire quando mi manchi…

Gran parte della critica ha scorto nel congegno linguistico di

Camilleri un processo di mistificazione caricaturale dell’interazione

tra siciliano e lingua italiana. Negli eloqui degli anni Sessanta

insistono ancora macchie “neutre” della scansione contadina, mentre

nelle opere successive a partire dagli anni Settanta la lingua

tradizionale si intreccia con un italiano “meticciato”, in cui affiora

più insistentemente la lingua vergine del dialetto, letteralmente

rarefatto, quell’ibrida matassa linguistica della piccola borghesia

agrigentina promossa a lingua comune degli italiani incolti, parallela

a quella descritta nell’ “Avvertenza a Liolà” di pirandelliana

memoria. La naturalezza della lingua “viganatese” sgorga dalla

riscoperta del lessico familiare, dal codice della quotidianità della

giovinezza, quando il giovane Camilleri, alla ricerca di liberi spazi

espressivi, reattivi al rigorismo linguistico ufficiale del collegio,

propendeva a collezionare termini, estrapolati dal doppio registro

linguistico, come ricorda lo stesso Mauro Morelli nella sua

documentatissima ricostruzione dei processi filosofici del linguaggio

camilleriano. Nel susseguirsi delle sequenze narrative, oltre alle

innumerevoli invenzioni per assonanze, tradotte in apparenti

neologismi per l’inserzione di un sintagma consonantico nelle

sofisticata struttura del lessema, è stata individuata la costante

ricorrenza di un centinaio di “lemuri pansiciliani”, ben innestati

nelle locuzioni idiomatiche di un italiano regionale con apporti

locali, inseriti in un contesto di facilitante pronuncia, anche per

l’accostamento immediato del corrispettivo termine italiano a quello

iniziale in dialetto. Ne deriva una coesistenza plurilinguistica,

potenziata dalla potenza inventiva dello scrittore, imperniata sul

triangolo strutturale italiano-siciliano-spagnolo, ben padroneggiato e

“spalmato” in situazioni descrittivo-dialogate nelle voci dei

personaggi dalle inarrestabili rianimazioni creative dello scrittore

empedocleo. Ne deriva un’originalità linguistica che affida spesso

alla metafora le movenze sensoriali corporee, paesaggistiche e

umorali, delegate a resa di concretezza visiva. Talvolta inserti

osceni segmentano momenti di turpiloqui nei dialoghi dei personaggi

che tendono a colorare più realisticamente la carnalità

socio-culturale dei protagonisti, coinvolgendo nella necessità

fisiologica del racconto, lo stesso Montalbano; ma nel complesso

prevale la patinatura professionale dello scrittore che finisce con

l’imprimere al suo personale sperimentalismo linguistico un nuovo

avanguardistico spessore, dentro cui il lettore si sente risucchiato,

grazie alla intelligente segnaletica semantico-operativa, offerta da

Camilleri, mediante la segreta magia espressiva di una miriade di

espedienti comunicativi, che imprimono ai suoi percorsi letterari una

rara capacità di fruizioni presso ogni tipologia di pubblico.