Siamo giunti alla IX e penultima parte della lunghissima opera omnia del Prof. Carmelo Aliberti dedicata al grande scrittore 0siciliano Andrea Camilleri, del quale proprio ieri sera è stato riproposto su Raiuno in prima serata il bellissimo film “La mossa del cavallo” tratto da un suo ‘romanzo storico’. Proseguiamo quindi con ‘La tripla vita di Michele Sparacino’, ‘La favola del figlio cambiato’, ‘Favole del tramonto’ e ‘Senza titolo’. Buona lettura.
LA TRIPLA VITA DI MICHELE SPARACINO
Questo romanzo di breve estensione è uno di quelli che Camilleri
scrive per suo “divertimento” personale e che non sono destinati alla
pubblicazione. Questo tipo di racconti gli nascono da considerazioni
casuali come nel caso di Michele Sparacino dove l’ispirazione gli
venne riflettendo sull’ultima frase del romanzo I vecchi e i giovani
di Pirandello nel quale si narra di un ex garibaldino che indossa
medaglie che non gli appartengono e che rimasto ucciso in uno scontro
con i soldati italiani questi si domandano, allo scoprire tutte quelle
onorificenze, «chi abbiano ucciso: un eroe o un mistificatore?» Da qui
nasce in Camilleri lo spunto per un racconto “pirandelliano” basato su
uno scambio di identità, anzi tra un’identità reale e una fantastica e
su uno sfasamento temporale dove il protagonista vive sempre una vita
in ritardo su quella reale sino alla fine quando gli viene fatta
vivere, dopo la morte, la vita eroica del “milite ignoto”. Il romanzo
contiene anche un’implicita accusa al cattivo giornalismo: quello che
inventa vite che non corrispondono alla realtà ma che realmente
rovinano la vita dei personaggi descritti.
«Alla mezzanotti spaccata tra il tri e il quattro di ghinnaro» del
1898 nasce, nel posto e nel momento sbagliato, Michele, il settimo
figlio di Nanà Sparacino, un poveretto che si consola di una vita
travagliata con il vino, che quando si reca in Comune a dichiarare
all’anagrafe il neonato si accorge che l’orologio comunale, che
scandiva la vita dei vigatesi, segna dieci minuti di anticipo sull’ora
esatta. La notizia corre per Vigata e Oreste Pilocco, noto agitatore,
ne approfitta per incitare allo sciopero i carrettieri che lavorano al
porto che ora pretendono che il loro salario sia conforme ai dieci
minuti in più di “travagghiu”. E così chiedono che si faccia per
«tutti quelli che, a Vigata, annavano a travagliare a secunno delle
ore che batteva il ralogio.» La notizia del “quarantotto” arriva a
Palermo da dove si parte per Vigata il giornalista Liborio Sparuto,
che nella confusione degli eventi «spia [domanda] a dritta e a manca»
e senza stare a pensarci troppo scrive un articolo inventandosi
un’intervista dove attribuisce la colpa della sommossa popolare a
Michele Sparacino che in realtà pensa solo a succhiare il latte
materno. Il neonato diventa così la figura involontaria e ignara di un
fantomatico e pericoloso sobillatore al quale vengono di volta in
volta attribuiti i disordini verificatesi durante la messa celebrativa
per il re Umberto I assassinato da un attentatore anarchico e
l’assalto al treno Caltanissetta-Catania carico di zolfo. Intanto
Michele Sparacino cresce sino al momento di andare soldato ed è
durante la visita di leva che il suo nome esce fuori associato a
quello di un sospetto e pericoloso sovversivo che quindi, con
l’occasione della guerra, conviene toglierselo di mezzo mandandolo in
prima linea sul Carso.
«Cinco jorni appresso, com’è e come non è, Michele Sparacino
s’arritrovò dintra a ‘na tricea del Carso, china di morti e di fango,
con gli astrechi che gli sparavano da tutte le parti. «Ma che minchia
gli ho fatto, a questi qua?» si spiò, ancora ‘ntordonuto da quello che
gli stava capitanno. E con «questi qua» non s’arriferiva sulamenti
agli astrechi.» Ma la vita fantastica di Michele Sparacino gli
riserverà ancora una sorpresa quando però ormai sarà morto: una terza
vita, eroica e gloriosa. Questo romanzo di breve estensione è uno di
quelli che Camilleri scrive per suo “divertimento” personale e che non
sono destinati alla pubblicazione. Questo tipo di racconti gli nascono
da considerazioni casuali come nel caso di Michele Sparacino dove
l’ispirazione gli venne riflettendo sull’ultima frase del romanzo I
vecchi e i giovani di Pirandello nel quale si narra di un ex
garibaldino che indossa medaglie che non gli appartengono e che
rimasto ucciso in uno scontro con i soldati italiani questi si
domandano, allo scoprire tutte quelle onorificenze, «chi abbiano
ucciso: un eroe o un mistificatore?» Da qui nasce in Camilleri lo
spunto per un racconto “pirandelliano” basato su uno scambio di
identità, anzi tra un’identità reale e una fantastica e su uno
sfasamento temporale dove il protagonista vive sempre una vita in
ritardo su quella reale sino alla fine quando gli viene fatta vivere,
dopo la morte, la vita eroica del “milite ignoto”. Il romanzo contiene
anche un’implicita accusa al cattivo giornalismo: quello che inventa
vite che non corrispondono alla realtà ma che realmente rovinano la
vita dei personaggi descritti.
«Alla mezzanotti spaccata tra il tri e il quattro di ghinnaro» del
1898 nasce, nel posto e nel momento sbagliato, Michele, il settimo
figlio di Nanà Sparacino, un poveretto che si consola di una vita
travagliata con il vino, che quando si reca in Comune a dichiarare
all’anagrafe il neonato si accorge che l’orologio comunale, che
scandiva la vita dei vigatesi, segna dieci minuti di anticipo sull’ora
esatta. La notizia corre per Vigata e Oreste Pilocco, noto agitatore,
ne approfitta per incitare allo sciopero i carrettieri che lavorano al
porto che ora pretendono che il loro salario sia conforme ai dieci
minuti in più di “travagghiu”. E così chiedono che si faccia per
«tutti quelli che, a Vigata, annavano a travagliare a secunno delle
ore che batteva il ralogio.» La notizia del “quarantotto” arriva a
Palermo da dove si parte per Vigata il giornalista Liborio Sparuto,
che nella confusione degli eventi «spia [domanda] a dritta e a manca»
e senza stare a pensarci troppo scrive un articolo inventandosi
un’intervista dove attribuisce la colpa della sommossa popolare a
Michele Sparacino che in realtà pensa solo a succhiare il latte
materno. Il neonato diventa così la figura involontaria e ignara di un
fantomatico e pericoloso sobillatore al quale vengono di volta in
volta attribuiti i disordini verificatesi durante la messa celebrativa
per il re Umberti I assassinato da un attentatore anarchico e
l’assalto al treno Caltanissetta-Catania carico di zolfo.Intanto
Michele Sparacino cresce sino al momento di andare soldato ed è
durante la visita di leva che il suo nome esce fuori associato a
quello di un sospetto e pericoloso sovversivo che quindi, con
l’occasione della guerra, conviene toglierselo di mezzo mandandolo in
prima linea sul Carso.
«Cinco jorni appresso, com’è e come non è, Michele Sparacino
s’arritrovò dintra a ‘na tricea del Carso, china di morti e di fango,
con gli astrechi che gli sparavano da tutte le parti. «Ma che minchia
gli ho fatto, a questi qua?» si spiò, ancora ‘ntordonuto da quello che
gli stava capitanno. E con «questi qua» non s’arriferiva sulamenti
agli astrechi.»
Ma la vita fantastica di Michele Sparacino gli riserverà ancora una
sorpresa quando però ormai sarà morto: una terza vita, eroica e
gloriosa.
LA FAVOLA DEL FIGLIO CAMBIATO
Che cosa può accadere dall’incontro di due siciliani illustri,
entrambi uomini di teatro e scrittori, ma distanti quasi un secolo?
Andrea Camilleri ci dice di avere voluto nella Biografia del figlio
cambiato trascrivere un suo “racconto orale sulla vita di Luigi
Pirandello da un punto di vista del tutto personale”. E aggiunge che
il “racconto non è destinato agli accademici, agli storici, agli
studiosi di Pirandello ché queste cose per loro son risapute, ma al
lettore più che comune”. E Camilleri non tradisce il lettore perché sa
come appassionarlo alle storie che racconta, siano le indagini di
Salvo Montalbano, o le vicende storiche ambientate in Sicilia. Anche
questa volta non si allontana da Porto Empedocle-Vigàta, perché il
“figlio cambiato” è il conterraneo Luigi Pirandello. A legare
Camilleri e Pirandello, a parte le coincidenze anagrafiche, sono la
vita spesa per il teatro e per la scrittura e le contraddittorie
radici siciliane, mai del tutto cancellate, se non per il bisogno di
vivere l propria vocazione letteraria
senza-il-peso-delle-convenzioni-che-la-“sicilitudine”comporta.
Camilleri ha così reinventato – riscritto a modo suo – il genere
biografia letteraria, quasi romanzo di una biografia, ulteriormente e
con forza caratterizzata dalla cifra personalissima dello stile e
della lingua: la vita che qui si racconta non è tanto quella dello
scrittore ma quella del “figlio cambiato” che Pirandello pensò sempre
di essere. Una vita segnata dal rapporto difficile, conflittuale,
negato e solo alla fine ritrovato, con il padre Stefano, una
marchiatura che indelebile segnerà la sua esistenza di uomo, di
marito, di padre, e ne guiderà il cammino di scrittore e il farsi
storia reale e scritta di una favola antica. La scoperta del primo
amore, il racconto amaro del matrimonio con Antonietta e la tragedia
della sua follia, il difficile legame con i propri figli, fanno di
Biografia del figlio cambiato un’appassionata narrazione che si dipana
introno al tema dell’identità, fulcro autentico e ineludibile della
vita e dell’opera di Pirandello che Camilleri interroga e indaga con
sguardo umanamente partecipe e severo. E con la pietas di chi ha
capito il dramma di quel tardivo “Ho sempre riconosciuto tutto”,
Camilleri affida all’attorta figura dell’olivo saraceno il compito di
una possibile luminosa riconciliazione. Un episodio raccontato nel
libro (pp. 55-60) era già comparso in un’antologia fuori commercio:
Com’è fatto un morto, in AA VV, Continua. Otto racconti a fuoco
(Marcos y Marcos, 1998, pp.31-43).
FAVOLE DEL TRAMONTO
“Favole del tramonto” le ha chiamate l’autore, motivando nella nota
introduttiva l’incantesimo amaro e ironico da cui provengono. Favole
brevi, talora di fulminante brevità tipografica, eppur sempre lunghe
concettualmente quanto il tempo che le collega a Esopo e Fedro per
ricondurle in ciclico percorso – tappa obbligata, Svevo – al luogo del
travaglio ove son nate, nella culla del terzo millennio. Un Camilleri
“diverso”? Un Camilleri “segreto”? Non tanto, ci sembra; non tanto,
almeno, quanto potrebbe a prima vista apparire. Perché anche queste
sorprendenti favole non sono in fondo che indagini – impietose e
commosse insieme – sulla condizione dell’uomo, medesimo oggetto delle
inchieste di Montalbano. In perfetta simbiosi, questa volta, con le
“immagini” geniali di Angelo Canevari che le suggestioni del testo
illustrano “plasticamente” (l’avverbio qui congiunge metafora e
materia) nella onirica dimensione dell’arte.
Nota–dell’autore
Scrissi la prima favola della mia vita tre anni fa e non per i nipoti,
come la mia vantata e felice condizione di nonno potrebbe far pensare.
Me la “commissionò” una cooperativa di detenuti ed ex detenuti: mi
venne chiesta, espressamente, una favola amara. Io scrissi “La
magarìa”. In un certo senso ci pigliai gusto e così, di tanto in
tanto, mi capita di comporne qualcuna. Perché il titolo “Favole del
tramonto”? È un titolo in qualche modo suggerito da Vittorio Alfieri
il quale, a proposito di certe sue ultime cose, scriveva che erano
suggerite dall’umor nero del tramonto. Tramonto della vita, beninteso.
Di questo umor neo, per mia fortuna, patisco assai raramente, ecco
perché le mie favole non sono numerose. Voglio qui ringraziare Angelo
Canevari al quale mi legano una fraterna amicizia e una lunga
consuetudine artistica. Le splendide tavole che accompagnano le favole
non sono né un’illustrazione né un commento, ma una creazione
parallela. Come un cammino fianco a fianco.
Andrea Camilleri
Il Cavaliere e la mela –I 4 Re –Il fante di spade –Un vero asino
–Il pelo,non il vizio Il cammello vanitoso L’altalena –Il Cavaliere e
la volpe –Lontane origini –Chi è senza peccato –Parabola
–Magaria—Biografia Il cappello e la coppola—Il poeta filosofo—Favole
inutile Il testo de La magarìa, nella versione riscritta per renderla
una fiaba musicale.
SENZA TITOLO
Due fatti di cronaca del ventennio fascista rivisitati da Camilleri
«Verso la metà d’aprile del 1941 il professore di cultura militare del
ginnasio liceo “Empedocle” di Girgenti, avvocato Francesco Mormino,
principiò a firriare classi classi per spiegare a noi alunni (io
allora andavo in prima liceo) il comu e il pirchì della grande adunata
giovanilfascista che si sarebbe svolta a Caltanissetta il 21 di quello
stesso mese. Il professore ci spiegò che ci saremmo dovuti recare a
Caltanissetta per rendere omaggio all’unico martire fascista
siciliano, Gigino Gattuso, del cui sacrificio supremo ricorreva il
ventennale». Partendo da questo episodio della sua giovinezza
Camilleri racconta la storia del “martire fascista” ucciso da un
“sanguinario socialista” nel 1921: e ricostruisce la vicenda con
quella mescolanza di fatti e personaggi, carte e parole, verbali,
rapporti, testimonianze – vere e false – fino al resoconto del
processo dove l’imputato viene assolto: non è lui ad avere sparato il
colpo mortale. Un manifesto anonimo si chiederà: “un fascista
ammazzato da un altro fascista può essere chiamato martire fascista?
Oppure è un semplice morto ammazzato privo di titolo? “ La storia di
Gigino Gattuso si intreccia con quella di Mussolinia, la colossale
beffa di una città, nei pressi di Caltagirone, della cui esistenza
soltanto Mussolini fu illuso. La posa della prima pietra, il 12 maggio
del 1924, fu funestata da una serie di incidenti, tutti organizzati da
nemici del regime, – il furto della bombetta di Mussolini e la sua
sostituzione con un ridicolo cappello, i fischi dei caprai, la
scomparsa della pergamena da incastonare nella prima pietra – che non
facevano presagire nulla di buono…Nel 1930 Mussolinia non era ancora
stata costruita. Il duce era impaziente e per non deluderlo fu
approntato un falso: moderna e maestosa nel fotomontaggio si profilava
la città-giardino. Ma poi, anche qui, intervenne un anonimo: con un
altrettanto abile fotomontaggio aprì gli occhi al duce e decretò per
sempre la caduta di Mussolinia.
Nota
Questo libro è costruito su due fatti di cronaca. Per questo ho
cangiato tutti i nomi e i cognomi dei reali protagonisti dei fatti:
essi in fondo non venivano più a corrispondere, per diverse ragioni,
ai miei personaggi. Via via che scrivevo, infatti, due o tre persone
realmente esistite si assommavano in un solo personaggio, certe
situazioni si spostavano nel tempo e nello spazio, certi punti che
erano parsi focali nelle cronache dell’epoca ai miei occhi non lo
erano più e via di questo passo. Ho lasciato il vero nome di Gigino
Gattuso solo nel primo e nell’ultimo capitolo: infatti in essi non c’è
alcuna invenzione. Devo dire che questo libro non avrei mai potuto
scriverlo se qualche anno fa il giornalista nisseno Walter Guttadauria
non mi avesse inviato un suo bel volume intitolato Fattacci di gente
di provincia (Edizioni Lussografica, Caltanissetta, 1993). Di un
capitolo di quel volume mi sono in parte già servito per il racconto
“Meglio lo scuro” compreso nel libro La paura di Montalbano. Per
questo mio Privo di titolo ho invece saccheggiato un altro capitolo di
Guttadauria, quello intitolato “Il caso Gigino Gattuso. Un omicidio
con due martiri politici”. Non finirò mai di essergliene grato. Per
quanto riguarda invece la storia della fondazione di Mussolinia, le
mie fonti sono state: F. Chilanti, Ma chi è questo Milazzo? (Parenti
1959); L. Sciascia, La corda pazza (Einaudi 1970) e l’articolo di
Maria Attanasio, “Il mare a Caltagirone”, in “La Sicilia”, 4
gennaio-2000.
Quando avevo appena finito di scrivere il romanzo, il dottor Salvatore
Venezia, calatino di nascita ma abitante a Torino, venuto non so come
a conoscenza del mio lavoro, gentilmente si premurò di inviarmi un suo
saggio, Mussolinia: il fantasma di una città giardino, apparso sul
“Bollettino” (1993, n. 2) della “Società calatina di Storia Patria e
cultura”. Il saggio è così prezioso, così pieno di notizie e dati, da
costringermi a non utilizzarlo: avrebbe sbilanciato il mio racconto
sul versante della città fantasma. Peccato. Sempre il dottor Venezia
mi ha fatto avere il saggio di Maria Luisa Madonna, “Dalla
città-giardino Mussolinia alla colonizzazione del latifondo
siciliano”, apparso in un volume di Studi in onore di Giulio Carlo
Argan (Firenze 1994): interessantissimo, ma anche questo non ho voluto
utilizzare perché io sono un romanziere che lavora di fantasia più che
basarsi su planimetrie, piante, disegni architettonici. Infine il
dottor Venezia mi ha fatto conoscere l’articolo di Toto Roccuzzo, “Nel
bosco di Mussolinia, la città invisibile”, pubblicato su “Diario”,
1998, n. 28.