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Abbiamo pubblicato nelle settimane scorse le prime quattro parti della copiosa opera omnia ricevuta dal Prof. Carmelo Aliberti sulla figura del grande Andrea Camilleri. Dopo i cenni generali sulla biografia e sulle opere continuiamo ad addentrandoci nei tanti lavori dello scrittore siciliano con questa V Parte. Buona lettura. 

La Strage Dimenticata 

La preziosa scoperta della strage sconosciuta compiuta nel 1948 con cui Camilleri anticipa le successive rivolte narrate ne ‘Il Gattopardo’ e ne ‘Il sorriso dell’ignoto marinaio’ di Vincenzo Consolo.

Dopo il successo incredibile, della serie investigativa de “Il

Commissario Montalbano”, magistralmente interpretato da Luca

Zingaretti per la Rai Tv che rese popolare l’attore e la serie fu

molto apprezzata dai telespettatori con un’audience da record e

replicata più volte dalla TV italiana con incessanti richieste di

numerose televisioni straniere che pagano i diritti relativi per

poterlo proiettare sui propri schermi con altrettanto entusiasmo,

consolidato anche dalle trenta milioni di copie vendute dei suoi libri

polizieschi in tutto il mondo, in numero sempre crescente. Andrea

Camilleri, dopo aver curato le sceneggiature di molti romanzi

televisivi, quasi in sordina, si è occupato anche della regia di

diversi sceneggiati a puntate con successo. Gli editori, dopo

l’exploit dell’eccezionale produzione narrativa che vede sempre alla

prova gli stessi attori, divenuti originali interpreti specializzati

nella originale lingua espressiva, inventata dallo scrittore

attraverso la struttura generale dei testi che, nello scorrere della

linea di sviluppo della trama, progredisce anche in lacerti

linguistici di provenienza popolare, ingioiellando il periodo, i

dialoghi dei personaggi e le inchieste, con l’innesto di perle

linguistiche personali e lontani da ogni forma di sperimentalismo, che

attraggono l’attenzione e la riflessione anche dei linguisti per

l’inserimento della parlata dialettale della sua terra ,resa ancor più

realistica in sintonia con il realismo delle indagini dei diversi

“casi” di reato e degli interpreti, indagati o testimoni, dalle cui

labbra si espandono emissioni di una lingua spezzata con il prezioso

termine licatese nell’articolazione espressiva, con il rafforzamento

armonioso del termine nello sviluppo del discorso e nella prosecuzione

del racconto, in cui lo scrittore distribuisce nel testo i termini

allogeni che il lettore attento riesce a comprendere. Del resto

sappiamo bene che la lingua italiana è quella studiata a scuola, a cui

molti hanno rinunciato per semplificare ogni dialogo con i propri

simili e con i genitori, che altrimenti si sarebbero “liquefatti” nel

faticoso lavoro e in tutte le altre incombenze della cura dei campi.

Occorre anche notare che, al tempo in cui Montalbano opera, la lingua

italiana era parlata da non molti cittadini, per cui Camilleri intuì

che per rendere credibili tante storie criminali e accostarsi più

facilmente al pubblico dei lettori, quella lingua doveva avvicinarsi a

quella usata nella quotidianità con spontanea trasparenza. Le

strategie investigative non sono adoperate con i ben noti, rigidi e

protocollari interrogatori dei precedenti commissari televisivi, che

spesso nella procedura giudiziaria finiscono con la prescrizione del

reato perseguito o per mancanza di prove schiaccianti o per il

prolungamento di ricerca delle prove a danno dell’indagato, che spesso

riesce a dissolvere ogni traccia di elementi accusatori. Il

commissario di Camilleri, saldo punto di riferimento protettivo per

gli abitanti di Licata, (denominazione inventata per indicare la sua

Porto Empedocle, in gran parte gente povera e onesta), che si rendono

subito collaborativi all’indagine, fornendo informazioni determinanti,

garantiti dalla segretezza e sicuri di non essere traditi, con il

rischio di divenire oggetto di vendette, di rappresaglie e anche di

attentati alla propria persona, ai propri familiari e ai loro beni. Il

commissario non ricorre a toni arroganti con gli indiziati per

estirpare la confessione di un reato, ma accoglie con cordialità

l’imputato e, attraverso un colloquio familiare ,quasi amicale, lo

avvolge in una invisibile ragnatela di contraddizioni che riesce ad

imboccare la pista della verità e a spiegare con limpida certezza la

dinamica del delitto, riuscendo a stimolare nel presunto colpevole i

meccanismi invisibili del rimorso che lo inducono volontariamente a

confermare ogni dettaglio criminoso del suo folle gesto e a liberarlo

dal tarlo del rimorso. Lo scrittore, in tal modo, dimostra come si può

amministrare la giustizia, senza la ghettizzazione del colpevole,

senza umiliarne la dignità di creatura umana, che accetta la giusta

condanna per poter essere riaccolto, senza pregiudizi nella società.

Infatti, il Commissario senza pistola svolge un’azione repressiva, ma

anche formativa, particolarmente quando ricostruisce le sequenze del

delitto, con razionale documentazione di prove, che trafiggono il

colpevole, lo fanno crollare e confessare la propria colpa. La

struttura dei romanzi polizieschi di Camilleri e il linguaggio

italo-licatese, e talvolta gergale, evidenziano una rara e semplice

elaborazione espressiva, che affascina il lettore sprovveduto, lo

induca a capire la vicenda narrata, risucchiato nelle carambole

linguistiche degli accadimenti ed estrarne il messaggio dell’episodio,

che lo scrittore vuole stimolare verso al rispetto della legalità per

poter vivere in un mondo meno crudele. Lo scrittore riesce qui, come

negli altri suoi racconti di commissario, a conciliare l’istinto a

delinquere dell’uomo con la capacità razionale del suo possibile

“recupero” del suo codice morale per potersi riscattare dalle

seduzioni del Male e riprendere il cammino terrestre verso orizzonti

più limpidi e sereni.

“La Strage dimenticata” non è un romanzo poliziesco simile a tutta la

serie delle opere poliziesche riconducibili al giallo, ma è la

ricostruzione argomentativa di alcuni sanguinosi episodi, rimasti

avvolti nell’ombra del mistero, appresi dai racconti della nonna,

quando Andrea era bambino e che, in parte, furono il nucleo ispiratore

di tanti intrighi tematici di alcune opere memorabili. “La strage”

racconta una di quelle vicende, che rimasero dimenticate, perché

incomprese dagli abitanti contemporanei, ma, durante una solita

passeggiata pomeridiana, sulla strada che, attraverso un vecchio

ponte, conduce verso la vecchia Torre, in cui era avvenuta la strage

raccontata dalla nonna. A contatto con il memorabile paesaggio, si

ridesta nei suoi pensieri l’eco del mistero o dei tanti dubbi rimasti

irrisolti su quel sanguinoso episodio che coinvolse in una morte

misteriosa 114 detenuti nella Torre e che nessuno riuscì a capire né

la causa, né la dinamica di quella strage, Contemporaneamente a

Pantelleria Altre 15 persone furono fucilate senza alcuna colpa, ma in

seguito ad infamanti calunnie, circolate strumentalmente. In atri

paesini periferici del Meridione avvennero simili stermini di

innocenti. Per “la tragedia” della Torre penitenziaria, la gente pensò

ad un’operazione repressiva per un tentativo di fuga dei detenuti. In

realtà, lo scrittore li inquadra nelle rivolte che divamparono in

Europa, che illusero alcuni popoli del vecchio continente,

schiavizzati dall’azione punitiva del vecchio regime, riportato al

potere dalle decisioni della restaurazione. La strage fu consumata su

iniziativa del maggiore Sarzana, custode responsabile della Torre che,

precedendo una presunta rivolta dei detenuti, già in fermento per le

nuove idee rivoluzionarie circolanti in Tutta l’Europa, per precedere

un’eventuale rivolta dei detenuti che avrebbero travolto anche lui,

rinchiuse i detenuti in una cella del luogo di pena e li bruciò vivi,

alcuna pietà. Le vittime di tanto orrore, in realtà, si sentirono

infiammati dalle nuove idee anti-tiranniche ed erano sull’orlo di

un’azione di rivolta. Nessuno intervenne per chiarire le vere ragioni

della strage e i responsabili, perché momentaneamente nel Sud

borbonico la rivoluzione fu rinviata. Camilleri individua, attraverso

episodi paralleli avvenute altrove, le radicali cause delle sparse

rivolte siciliane, generate dai soprusi subiti dalla plebe

meridionale, particolarmente a Palermo nel 1848,quando il 9 gennaio la

folla si ribellò, anticipando i successivi movimenti di liberazione

ripresi da Consolo nel romanzo “Il sorriso dell’ignoto marinaio” e nel

Gattopardo di G. Tomasi di Lampedusa, che evidenziarono anche i primi

tentativi di sostegno clandestino dei nobili , dei possidenti e di

quanti volevano mantenere il potere, anche a costo di un vituperevole

voltafaccia. Ma sotto la spinta di tali coraggiosi episodi di Rivolta,

Ferdinando II concesse a Napoli la prima costituzione.

Il testo

Il nove gennaio 1848 i muri di Palermo furono tappezzati da un

proclama che principiava così: «Siciliani! Il tempo delle preghiere

inutilmente passò! Inutili le proteste, le suppliche, le pacifiche

dimostrazioni. Ferdinando tutto ha sprezzato. E noi, popolo creato

libero ridotto fra catene e nella miseria, tarderemo ancora a

riconquistare i legittimi diritti? All’armi, figli della Sicilia! La

forza di tutti è onnipossente: l’unirsi dei popoli è la caduta dei re.

L’alba del 12 gennaio 1848 segnerà l’epoca gloriosa della universale

rigenerazione». In queste parole due cose impressionano, una delle

quali sommamente. La prima è che un’insurrezione sia annunciata non

solo pubblicamente ma addirittura con tre giorni d’anticipo, segno –

come spesso avviene – non tanto d’incoscienza o di inarrestabile

«geometrica potenza» degli insorgenti quanto di imbecille sordità dei

tutori del momentaneo ordine costituito. La seconda, quella che ci fa

restare del tutto intronati, è che l’insurrezione sia poi scoppiata

davvero e – a Palermo! – alla data stabilita. (…) Se al manifesto di

Francesco Bagnasco sia De Majo sia gli alti comandi borbonici non

avevano dato orecchio, meno che mai glielo poteva dare il maggiore

Emanuele Sarzana che comandava il presidio della Torre alla Borgata

Molo. Lì tutto appariva tranquillo, il botto non si era sentito.

Scrisse Marullo: «Nessun fuoco di odii animava i buoni e pacifici

cittadini. Avevano essi sentito parlare di libertà, ma di questa dea

fascinante non intuirono che il mistero del nuovo: essi onesti,

laboriosi, ossequienti alle leggi, nulla seppero della tirannide, la

quale non li aveva notati e, perciò, non li aveva investiti». Può

darsi, ma la Borgata Molo era un paese di mare, ed è risaputo che ogni

buon marinaio, prima di alzare la vela, deve calcolare esattamente da

che parte tira il vento e sapere se quel vento tiene. Però c’erano, in

paese, almeno duecento persone che della «dea fascinante» avevano

preciso concetto, e questa «dea» non aveva «il mistero del nuovo»,

anzi, aveva tutto di vecchio e di conosciuto: la famiglia non più

vista da anni, le facce degli amici quasi dimenticate, il ritmo di una

camminata fatta in campagna senza la palla al piede, l’odore di una

femmina. E loro dall’occhio della tirannide erano stati sì notati, o

almeno di questo erano certamente convinti, perché è risaputo che ogni

carcerato è pronto a proclamarsi vittima innocente delle macchinazioni

del potere. La quarantottesca rivolta degli abitanti della Borgata

inizialmente – sempre secondo Marullo – «non si ridusse che allo

scampanellare del tempio e un vociare incomposto di abbasso e di

evviva a perdersi tra la collina e il mare». È vero, ma bastò perché

una squadra di forzati, quella che era addetta ai lavori agricoli,

sopraffatte le guardie, si desse alla fuga. La notizia arrivò in un

attimo in paese e fece sprofondare nel terrore i notabili e i

commercianti, che si barricarono in casa. (…) Allora, visto che si

cominciava a sentire feto di bruciato, pure Sarzana si rinserrò nella

Torre con i suoi soldati e con gli ergastolani, sicuramente

maledicendo il giorno in cui, trecent’anni prima, era stata decisa

l’abolizione del ponte levatoio. (..) La mattina dopo, visto che degli

ergastolani scappati in paese non era rimasto manco l’ombra, la vita

nella Borgata tornò ad essere normale, con Sarzana sempre intanato

dentro la Torre. Ma il giorno 25 arrivò la notizia che De Majo se ne

era andato dal palazzo reale di Palermo e che De Sauget con i suoi

cinquemila soldati stava faticosamente ritirandosi su Messina. (…)

Sicché a rappresentare il regno borbonico in Sicilia rimanevano il

forte di Castellammare, la Cittadella di Messina, la Torre della

Borgata Molo, e qualche altra fortificazione sparsa, che praticamente

non erano in condizioni di svolgere un’azione comune, ammesso che ne

avessero sentito la voglia. I borbonici rimasti in Sicilia erano in

sostanza degli assediati. E a rendere concreto l’assedio, al tramonto

del giorno 25, una folla di un centinaio di persone si spinge,

vociando, sotto le mura della Torre. È sbagliato credere che gli

abitanti marinari della Borgata avessero deciso che il vento della

rivoluzione teneva: in mezzo a quella gente i borgatanti veri e propri

saranno stati una trentina, la maggior parte dei quali «saccaroli»,

vale a dire trasportatori di sacchi, quelli che in paese svolgevano il

lavoro più duro ed erano i meno pagati. «In quei giorni erano arrivati

molti forastieri» contava mia nonna. E si spiega: parenti e amici

avevano avuto tutto il tempo di correre dai loro paesi alla Borgata

per organizzare la liberazione dei forzati, e molti di questi

forestieri, approfittando dell’ammaino generale, erano arrivati

armati. (…)

Quando i carcerati sentono le voci da fuori, eccitatissimi, non

sapendo precisamente quello che sta succedendo ma comprendendo che

comunque sia qualcosa si muove a loro favore, si mettono a fare un

tirribìlio di voci e rumori. Di fronte a questa situazione, Sarzana,

contrariamente a quanto pensa Marullo, non perdette la testa né fece

ciò che fece mosso da cieca rabbia. Capì subito infatti che se tutti

gli uomini gli servivano per parare il pericolo esterno, bisognava che

a sorvegliare i carcerati non restasse manco un soldato. Ordinò quindi

che a botte, a colpi di calcio di fucile, a catenate, tutti i forzati

sparsi per la Torre fossero obbligati a calarsi nella fossa comune.

(…) Una volta al sicuro gli ergastolani, Sarzana comandò ai soldati

di salire sulla terrazza, attraverso la scala che era dentro il

cilindro, e di isolare poi la scala stessa con le due chiusure, quella

superiore e quella inferiore, per evitare di essere attaccato alle

spalle se, per caso, i galeotti fossero riusciti a scardinare la grata

della fossa comune. (…) A questo punto dalla folla comincia a

partire qualche colpo di fucile e per i soldati dare la risposta si

presenta subito difficile: la Torre non ha mai avuto merli dietro cui

ripararsi, sparare dalla terrazza significa perciò alzarsi in piedi ed

esporsi per qualche secondo al fuoco avversario protetti solo a metà

dalla balaustrata che corre torno torno. La sparatoria, che non può

ottenere apprezzabili risultati da una parte e dall’altra, si allunga

nel tempo fiaccamente. Quanto basta però perché i forzati nella fossa

vengano a trovarsi completamente senz’aria. (…) Contrariamente ai

tonni che muoiono in uno spaventoso silenzio, i forzati fanno voci da

disperati. Sarzana a un certo punto sente che il registro di quelle

urla è cambiato e manda due soldati a vedere cosa sta succedendo. I

soldati glielo riferiscono e gli dicono magari che la grata rischia di

cedere sotto la pressione dei carcerati letteralmente impazziti per la

mancanza d’aria. Perciò il maggiore capisce di non avere più via

d’uscita: farli uscire ora come ora dalla fossa è uguale a liberare

cento gatti inferociti da dentro un sacco all’interno di una stanza,

il minimo che possono fare è saltargli agli occhi; lasciare aperta la

presa d’ aria non si può nemmeno, con la grata che sta per cedere.

L’unica è alleggerire la pressione che contro di questa i forzati

esercitano: dà ordine, allora, di lanciare tre petardi nella fossa e

di isolare nuovamente, subito dopo, la scala. (…) Il botto dei tre

petardi sparati all’interno raggiunge gli assedianti i quali, poco

dopo, sentono progressivamente affievolirsi le voci degli ergastolani.

Dalla folla allora non sparano più, tutti si rendono conto che

qualcosa di grave deve essere accaduto e questo, invece di aizzare la

violenza, la tramuta in una sorta di sudata perplessità. Manco i

soldati dalla terrazza tirano più colpi. «La popolazione – scrive

Marullo – fatta per ansia muta, intuisce, si smarrisce e si dirada

silenziosa a occultare tra le atterrite famiglie, il tormento

angoscioso della propria anima, in cui la sospettata sciagura gravava

già col rimorso di una colpa inconsapevolmente commessa!». (…)

Continuando nella sua esposizione, Marullo afferma che il giorno dopo

(…) «Carri carichi di uccisi, buttati alla rinfusa, l’uno sull’

altro – teste e gambe penzoloni – le carni violacee, sanguinolenti

ancora, lacerate dalle schegge delle bombe, passano per l’unica via

del paese, per trovare sepoltura su la lontana spiaggia, come se

responsabili essi fossero della loro morte violenta e, perciò, dovesse

essere loro negata la pace nel cimitero del paese! Carri molti

passarono così, tra il profondo cordoglio della nostra gente, che nel

proprio cuore non trovò che una prece pietosa per le vittime

infelici». (…) Secondo (…) altra versione, più credibile, il

trasporto di alcuni morti solamente ci fu sì, ma molti giorni dopo.

Coincide però il luogo del seppellimento: la spiaggia proprio sotto il

Caos, il posto dove nascerà Pirandello. Per indicare che lì c’ erano

dei morti, ci misero una croce di legno e per questo la località, che

prima era anonima, da allora in poi si chiamò «’a crucidda».

Nell’appendice del primo racconto storico, Camilleri dimostra la sua

eccezionale modestia (e si sa che tale dote è dono degli Uomini

Grandi) nel non attribuirsi il merito della scoperta dell’elenco dei

nomi trucidati nella rivolta siciliana del 1848 e titola le fasi della

strage di 114 martiri indifesi e innocenti e velocemente dimenticata

in una nota introduttiva al racconto in cui rivela le sequenze e i

motivi di “una carneficina di innocenti”, sospettati maldestramente di

volersi unire agli insorti in varie parti dell’isola per potersi

finalmente liberare dall’atroce condizioni di vita, di cui erano da

secoli reclusi.