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Riceviamo e pubblichiamo integralmente con piacere una recensione del Prof. Carmelo Aliberti sul romanzo “Gli altri” del grande Michele Prisco. Buona lettura. 

Un vero capolavoro dello scrittore che riesce a superare la sua crisi creativa, causata dal “genere umano perduto”, riscoprendo nell’amore verso una donna sconosciuta e quasi in fin di vita, un forte sentimento di amore e di cristiana solidarietà.

Lo scrittore, quando già crede di aver concluso il suo percorso narrativo, riscopre in un vecchio cassetto un romanzo che aveva dimenticato di avere scritto e di aver abbandonato, incompiuto per le sue incertezze drammatiche interiori, con la convinzione di non riuscire a portarlo a compimento, quasi una rinuncia a continuare a scrivere, ritenendo superflua l’attività di scrittore. Si può ipotizzare in tale rifiuto il segno di una momentanea crisi, di cui Prisco non spiega le ragioni come sospese nell’ambiguità, e con la “suspense” vengono sottoposte alla riflessione per dipanarne il mistero. Lo scrittore, forse in crisi creativa per essere costretto a vivere in una città violenta, aggressiva, pronta ad uccidere per pochi soldi schiacciato dall’insopportabile peso del disamore.

Prisco attratto da una dolorosa curiosità di verifica delle sue ragioni narrative, comincia a rileggere il manoscritto, lo interroga per chiarire a se stesso alcuni dubbi angosciosi, ma non riesce a captare le ragioni della sua fragilità, anzi dell’inutilità dell”ars scribendi”, letta da pochi e ignorata dai molti che non riescono a penetrare nel regno del suo buio interiore. Mentre rilegge l’ingiallito manoscritto, si sente progressivamente più indebolito nel circuito della vita, e più coinvolto nella storia di una donna, Amelia, che vive isolata da tutto, finché un giorno un uomo, Felice, a lei sconosciuto, irrompe improvvisamente in casa sua per riferire che un uomo sta morendo, invocando il suo nome.

Il libro di spesso valore letterario, procede su due registri: quello letterario, che ruota attorno al recente annuncio che sconvolge Amelia, un’anziana maestra di ricamo che conduce una piatta vita: quello memorialistico, si dipana sull’esperienza della scrittura, di quel romanzo abbandonato e dimenticato, poi ripreso tra tanti dubbi e interrogativi, non prova delusioni dalla scrittura, nè tensione di inutilità della sua arte di scrivere: Il suo costante e severo confrontarsi con la sua scrittura gli rivela uno stile narrativo di elevata fattura e un gomitolo intrecciato di slanci e di cadute, di atteggiamento volitivo di continuare e di esplorare gli smarrimenti degli altri, di fronte a modelli di vita altrui, sospesi nella vacuità del niente agghindato che egli rifiuta, perché dominato dal non senso e assediato da un nuovo male mortale, perché la scrittura sembra aver avuto il sopravvento sullo scompiglio mentale dello scrittore, perché la buona scrittura vive di vita propria.

Con questa ultima pubblicazione, si capì che Prisco aveva già donato all’umanità le sue migliori opere, sigillando un costante itinerario letterario ed umano, lasciando un’eredità di autentici valori, sempre ben custoditi negli impervi percorsi della sua vita e del suo operare, tracciando, romanzo dopo romanzo, una lezione ineccepibile di codice etico, esistenziale e culturale, ignoto a molti giovani, e alle donne protagoniste dei romanzi dello scrittore napoletano, le cui esperienze di vita interiore, (ancora palpitanti del dolore di una tragedia segreta) di cui lo scrittore si appassiona, con un sentimento sacrale del ruolo dello scrittore o del poeta-vate, il vero maestro della società, non per autoreferenzialità, ma come vocazione professionale da parte di chi avverte in sè il pulsare di invisibili energie interiori, da trasmettere a ciascun essere mortale come modello di riferimento esistenziale. Ogni suo romanzo può dignitosamente essere definito un capolavoro, traboccante di ideali e di vocazione etica, non artificialmente elaborati, ma incisi dalle leggi naturali, che lo scrittore arricchisce con la forza della ragione.

Particolarmente la perfetta costruzione della struttura e l’elaborazione limpida e penetrante della lingua, dotata di una aerea levità di articolazione per una spontanea fruizione dei messaggi del testo, che s’ immerge nella silenziosa catabasi del lettore e delle lettrici, che dovrebbero ricercare nelle opere di Prisco una parte della loro interiorità, devastata da modelli trasgressivi e irrazionali o dalle ossessioni irredente, o dalla mitologia del consumismo. Chi legge un romanzo di Prisco non s’inoltra in strutture corrosive, né nei labirinti della perdizione dell’anima, ma riesce a metabolizzare il male fino al prosciugamento o all’esplosione distruttiva, per riuscire a debellare responsabilmente le cause della tragedia, del dolore e del male di vivere degli “altri” che, nel sottostante cortile della quotidianità, perseverano a scontrarsi banalmente con gli “altri” con le fatue illusioni di poter evadere dalla mediocrità di chi li ghettizza nel cortile del male. Lo scrittore rifiuta lo spettacolo ibrido della ruvidità espressiva, ma le sue pagine risplendono di trasparenti perle di scrittura che si sentono scivolare nell’anima, come una dolce medicina, generatrice di ristoro anche nei cuori lacerati da vaste ferite.

È un laborioso, ma non cattedratico, discorso con sé sui problemi delle sue inconsapevoli creature e ne “Gli altri”, lo scrittore avverte l’urgenza inarrestabile di mettere a nudo la propria storia, ricercandone gli errori o le scelte sbagliate nel ritaglio del ritratto degli altri, un modo di capirsi in ciò che ha scritto e di mostrare “agli altri”, se stesso come oggetto di riflessione e punto di riferimento di una spontanea metodologia indagatrice, senza far vergognare l’uomo dei propri errori, ma lo guidi per mostrare al pubblico i propri difetti, così anche loro, dotati di libero arbitrio, potranno approdare al vero senso cristiano della vita, e potersi riconoscere nella loro identità di creature celesti, che vivono la loro vita con quella de “Gli altri”, in una pacifica società di fratelli, seppellendo ogni forma di male e di violenza, con un concerto d’amore e di pietà.