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Riceviamo dal Prof. Carmelo Aliberti e pubblichiamo integralmente un ritratto sulla figura di Sebastiano Saglimbeni, un grande siciliano, originario di Limina, cantore della civiltà agropastorale della nostra terra, educatore e docente al V. Madia di Barcellona, che dopo la Laurea in Lettere, si trasferì al Nord per insegnare. Fondò la Rivista MONDO NUOVSSIMO a BOLZANO e la casa editrice IL PANIERE a Verona, che pubblicò alcuni volumi di poesia dell’amico barcellonese Cosimo Pirri.

L’esordio poetico di Sebastiano Saglimbeni risale al 1950, quando

aveva appena conseguito la Licenza ginnasiale, al suo paese nativo,

Limina, una comunità nella provincia di Messina, sopra il versante

Ionio, allora di circa tremila anime.Un esordio di versi endecasillabi

e settenari, mai editi, ma che circolavano, scritti con la penna ad

inchiostro o con la matita, tra i compagni, pure autori di versi.

L’influenza arrivava un po’ dai canti popolari, un po’ dalle letture

dei poeti, dei quali si apprendevano a memoria alcuni dei loro

testi.Passeranno alcuni anni e Saglimbeni si stabilirà a Messina, dove

proseguirà gli studi per la Laurea in Materie Letterarie.

Contemporaneamente lavora come educatore all’Istituto “A. Cappellini”

della città dello Stretto. La città vantava sin dalla fine

dell’Ottocento un proliferare di periodici, di varia cultura. Alcuni

duravano a lungo, altri chiudevano battenti in breve tempo. Nel 1958,

l’insegnante di Lettere Antonio Migliardo aveva fondato il periodico

di letteratura “Eco”, dopo l’esperienza di un altro, sfortunato, dal

titolo “Selene”. Su “Eco”, Saglimbeni pubblica due sonetti nel

dialetto del suo paese, dedicati ad un amico e parente. Il tono è

classico, l’ispirazione è virgiliana, quasi ricalcata sui primi

esametri della prima egloga. Così, in uno dei due sonetti, l’esordio

edito di Saglimbeni che poetava:

 

 

Tu, caru Giuvanninu, stinnicchiatu

 

ti stai all’umbra di li nuciddari,

 

gudennu la friscura e sii biatu

 

cu li sacchetti chini di dinari.

 

 

 

Seguono altre collaborazioni al periodico con testi in lingua. Ma ci

muoviamo nell’ambito di un esercizio della scrittura poetica di

Saglimbeni, che nel 1961, alcuni mesi prima della laurea che

conseguirà a Palermo, pubblica con la casa editrice musicale di

Ancona, Farfisa, una silloge di versi dal titolo E non ho pianto. Qui

il lirismo risulta accentuato e qualche testo accattivante viene

scelto in antologie scolastiche di un certo rilievo.

 

Da allora l’itinerario creativo si va intensificando nel nord del

Veneto, dove Saglimbeni si trasferisce ed insegna, con la

pubblicazione di altri titoli poetici e prosastici. Giovanni

Occhipinti nel suo saggio P(r)o(f)eti dell’Isolamondo compie una

puntuale lettura della poetica di Saglimbeni (non tralasciando di

accennare alle prose de I Domineddio, de La ferita del Nord, di

Portellarossa e della commedia in tre atti Le vergini sono in

vetrina). Il saggista, a proposito della silloge E non ho pianto, si

esprime così: (…) Siamo insomma alla preistoria della poesia di

Saglimbeni, poeta, con molti altri dell’area messinese, della “

diaspora”. Il lirismo, in questo primo tempo, non è che la misura di

uno strazio esistenziale e della necessità di inseguire sensazioni e

percepirsi nei ricordi a verifica che si esiste ancora o che da

qualche parte si è esistiti… è insomma un momento del ritorno, pur

attraverso le illusioni degli affetti, alle presenze care e perdute,

ma anche alla storia o di un luogo-microcosmo ancora generoso,

nonostante tutto, di elementi vitali per una biografia interiore e

dell’anima ove attenuare l’angoscia di una condizione esistenziale

talora insostenibile: “ non ho detto ad altri / che dormono sui letti

bambagia/ le mie angosce/ per chiedere la mano…” (E non ho pianto).

Ma si dovrà giungere a I martiri hanno l’acqua in bocca, le poesie

scritte tra il ’61 e il ’64 e pubblicate nel ’65, per scoprire un

poeta la cui pacata e sicura forza interiore proprio di chi ha molto

cari gli ideali e in odio profondo i compromessi. La storia è già

presente, in questo libro, nei delitti e nella nera miseria della

guerra, ma l’attenzione è l’assillo del poeta sono rivolti al culto di

una vivissima religio larica che egli può custodire solo dall’interno

di una tradizione contadina mai rinnegata e anzi rigorosamente

custodita per tramandare ogni umore come qui, in Morte subitanea, dove

egli non rinuncia neanche a certe espressioni della parlata siciliana:

“ Tua madre contadina accolse la malanova/ sulle colline del tuo

paese: guidava le mucche nell’aia/ e stramazzò gridando/ ed atterrì le

bestie”. Ma è anche manifesto qui il disegno del poeta di tenere viva

la spiritualità della gente di Limina, quella antiavvento dei

mass-media che operarono ed operano irreversibili processi di

livellamento linguistico, a quei tempi ancora ricca di colore e di

tradizioni: intendiamo l’epoca in cui, nel microcosmo liminese, non

ancora appunto profanato dai mezzi di comunicazione, le parole avevano

dentro l’anima dell’uomo e non, come oggi, la fredda “malizia” delle

macchine; quando avevano dentro il potere e la forza della

sapienzialità della gente di campagna e non la beffa non l’astuzia non

l’inganno del consumismo; quando avevano ancora dentro l’amore per la

sopravvivenza della specie umana e non l’odio dell’oppressione e della

distruzione. Saglimbeni sente questo preciso dovere morale di serbare

per sé e per la sua gente ancora angoli edenici come per un’ultima

speranza di sopravvivenza: “… le tue vecchie/ sedute sopra scanni di

agavi/ dentro scialli antracite/ e vesti color d’erba/ di calamo fino

(…)// Miste ad onde di lana/ filavano le stoppe/ e davano occhiate/

smarrite al loro mondo/ che finiva all’orizzonte/ d’una croce greca/

del vecchio campanile” “Antica Limina”. La campagna, la natura sono

sempre partecipi della vita dell’uomo: sono l’immancabile scenario

dove afflitti protagonisti del dolore e dell’esistenza sfilano e si

dissolvono lungo gli itinerari di lontane mete: sono i personaggi

della “diaspora” che vanno con la disperazione nel cuore ma anche con

l’idea fissa e l’ansia segreta del ritorno, del nostos: “ Fatemi

andare. Prenderò/ un ramoscello di gelsomino/ che metterò

all’occhiello/ della mia vecchia giacca di poeta” (Sarò un disertore

della mia terra): motivo quasimodiano che tornerà più tardi,

diversamente e più incisivamente espresso in “Catàbasi e lezione

d’umiltà”. Ma dove meglio si apprezza l’originalità del poeta, vuoi

per le nuove acquisite capacità di invenzione vuoi per l’abilità di

manovrare e dirigere la scrittura poetica, e in “Resistenza alla terra

gibbosa”, il libro pubblicato nel ’69, scritto dal ’65 al ’68 e che,

tratteggia con molta efficacia la fisionomia di questo primo tempo di

Saglimbeni, ponendosi come conclusione di un ciclo e preludio di una

nuova e più significativa epoca della sua poesia, nella quale però

persistono, sia pure su altri più complessi e notevoli registri, quei

motivi e temi di sempre. Di questo libro colpisce, specie nella parte

introduttiva, l’andamento narrativo tipico del racconto biblico, nel

quale è tentata, attraverso l’oggettivazione dei personaggi – si badi

alla figura alquanto suggestiva di patriarca -profeta – una sorta di

genesi ironica e amara e perciò inconclusa, o, se vogliamo,

l’antigenesi di una famiglia, che per esteso è la grande famiglia

degli uomini dediti alla terra, e che alla fine deve fare i conti col

solito antieden e con la solita sorte malavogliana (ma anche

ebraico-biblica) che conduce inevitabilmente alla diaspora e quindi

alla contemplazione del nostos: alla nostalgia! Ecco, è qui la spinta

emotivo-esistenziale primaria che muove tutta la poesia di Saglimbeni.

La cui “ anarchia” non è che ricerca irritata e delusa per l’

“assenza” appunto del Deus absconditus; non è, come già appare sin

dalle prime battute, che fervore deluso ma non per questo sconfitto.

Si comprendono allora l’umanissima rivolta del poeta, però con tutto

il rispetto per la storia di Cristo, o certe impennate e sfuriate

contro la trascendenza ridotta alla stregua di un dio della terra, a

divinità campagnola che in effetti non esiste se non nel credo di una

religione semplicistica e naturalistico-contadina che tuttavia ha il

merito, legata alla credenza quasi infantile dei premi e dei castighi,

di legarci ancora al Dio nascosto. Ma in tutto questo si coglie anche

il presentimento e la pena per l’esodo dalla campagna favorito dal

miraggio del miracolo economico e dalle agevolazioni alle industrie

del Nord a discapito dell’agricoltura del Sud.

Si comprende perciò perché protagonista di questa poesia è la terra

(nel senso soprattutto di luogo di origine) con tutto ciò che di

autentico resta all’uomo. Nostalgie. Affetti, traumi, fatiche,

umiliazioni, fame qui scorrono sul filo di ininterrotte e discrete

reminiscenze che bene si adeguano alla semplicità di un dettato che sa

finalmente scuotere l’intelligenza del lettore: e in queste

reminiscenze le stagioni della campagna non sono che le stesse

stagioni dell’uomo, eroe “ della terra gibbosa ”. Sempre cara

tuttavia, anche dopo la fuga al Nord.

La corda sempre tesa dell’ironia diviene allora sintomo di un processo

di adattamento. Di ora in avanti la poesia di Saglimbeni, sino al più

recente “Catàbasi e lezione di umiltà” seguirà due direzioni: quella

del ritorno e della fedeltà alla religio larica e quella della

direttiva accesa pungente dissacrante ironia nei confronti del nuovo

ambiente, al quale egli si accosta attraverso un penoso processo di

opposizione/adesione. Cosicché, in Un’egloga per la primavera veneta,

il poeta potrà affermare: “… Per ora / laggiù la terra gibbosa ha

dato / occhi ai rovi che sento

 

sedere delle vostre sorelle?/ A Messina e a Reggio, sotto Roma, / i

fratelli fanno vigilanza /alle mucche, ma vanno a salire/ su altre di

razza veneta…”. Era inevitabile che, cacciato dal Nord e dal Sud (“

Bandito dal Nord e dal Sud. Sono/ un uccellaccio di bosco. Ma questa

sera/ mi sono messo a scrivere con una penna/strappata alle ali

strappate” (“Lettera a Francesco” Concini), concludesse l’amaro canto

di poeta della diaspora, questo Saglimbeni di gran lunga il meno

integrato e il più irrequieto, col recupero di quei canti popolari che

occuperanno poi un loro preciso e autorevole spazio nella sezione

dedicata ai canti popolari liminesi in “Catàbasi e lezione d’umiltà”,

il libro più nuovo e certamente uno dei più originali e validi delle

ultime stagioni poetiche italiane: una “ storia” “narrata” col

distacco di chi in definitiva senta l’amara inutilità di avviare un

dialogo, di stabilire un rapporto affettivo-sentimentale con la

terra-madre, con la propria matrice lontana. Ancora insomma il

sentimento del tempo che, tra presente e passato, tenta le tappe di

una geografia sentimentale che non ha più chiare le coordinate

dell’approdo al luogo del ritorno. Il poeta non si illude sulle

possibilità di un ritorno fisico, sa del resto che non è questo ciò

che più conta, essendo per lui Limina più che il luogo geografico dei

natali il luogo dello spirito, la dimensione perduta e vagheggiata di

un mondo come ormai inesistente, forse come esistito; e certamente il

luogo che aveva visto nascere e morire ogni ideale: c’era stato il

crollo dei sogni e quindi la constatazione del fallimento sociale

oltre che individuale, il naufragio dei progetti anche politici. Un

bilancio, dunque! E narrato attraverso i personaggi-destinatari della

sua lettera-poema con tutto il rammarico per l’approdo, invece,

inatteso e non voluto alla falsa realtà del nostro tempo. E c’è poi

quel suo modo dimesso, seppure risentito, di dire intorno all’antica

condizione del Sud: “non come laggiù dove piove/ sopra gli aborti

delle messi/ e l’acqua impotente di giugno/ è come sterco nel

pugno…”; e ancora: “ Era meglio sorella che tu restassi/ laggiù tra

l’orzo nano/ di giugno e le spighe/ magre e miserabili/ del grano…”.

Sebastiano Saglimbeni sa ovviamente, con la discrezione propria del

tono parentetico, come comunicare al lettore i propri sentimenti e

come condurre una polemica; e quel suo “ far cronaca” en passant, il

fatto,

 

la notizia buttati giù come occasionalmente nel corso di una

chiacchierata spontanea, alla buona, familiare rendono gradevoli

persino talune” cordiali malignità” letterarie. È forse qui il

fascino di questo rapido “ racconto epistolare ”, dove ancora disamore

indiscrezioni risentimenti, nel loro calcolato succedersi o

alternarsi, consentono uno spaccato della realtà del mondo però vista

attraverso l’ottica dello scetticismo ironico. Il discorso poetico,

sempre fortemente didascalico nello stile e nel procedimento

discorsivo, potrebbe continuare all’infinito a rivolgersi ai due

interlocutori presenti nel “tu” : al personaggio femminile e al mondo;

e del mondo il poeta diviene, talora, la stessa cattiva coscienza! Tra

fughe e ritorni, i temi scottanti almeno degli ultimi due decenni

della nostra storia vi sono trattati in sordina e senza ricorrere

all’aggressività propria del linguaggio di derivazione avanguardistica

e sperimentale: qui semmai lo sperimentalismo si potrebbe far

consistere nella novità e originalità della “ parlata” che ha tutto il

sapore e la pastosità del linguaggio che trae i suoi umori più

suggestivi dalla matrice isolana e dalla civiltà contadina. Nessuna

violenza alla parola: l’umorismo discreto, la forza ironica che

Saglimbeni deriva dalle cose come dalle situazioni storiche, sociali,

spirituali e di cronaca trovano nell’incisività della parola, nella

singolarità della sua sintassi, nella “parlata” con inflessioni non di

rado di tipo quotidiano plebeus, la forza e l’originale constatazione

di una civiltà divenuta inaccettabile ed anche – ecco la doppia

valenza del linguaggio di questo poeta – il desiderio del ritorno al

luogo dei miti, sempre vivo nei poeti cosiddetti della “diaspora”. E

in questo senso deve essere interpretata la passione che induce (si

veda l’ultima parte del libro) al recupero dei Canti popolari liminesi

anonimi: nel senso cioè di un ritorno amoroso a una tradizione che non

si vorrebbe avviata all’estinzione e in quello della contemplazione

appassionata e commossa, da un luogo sperduto dell’ “esilio”, di uno

stato naturale come eden, come impareg-giabile spazio dell’Amore.

Ricco di inventiva, Saglimbeni ama dirigere le proprie energie

emozionali verso scenari che gli restituiscono ancora una volta

l’immagine cara della sua Sicilia, sia essa la Sicilia di Teocrito o

anche la Grecia di Omero: come qui, in “Suono per la tenera fronda”

(Edizioni del paniere, ’79), dove la figura di un padre-pastore

errante, che è anche maestro di affetti, il poeta, e la figlioletta,

interlocutrice innocente di un dialogo amabilissimo, sono gli unici

protagonisti di un “racconto” permeato di finezza psicologica da

rasentare la “ favola poetica”. La memoria è il veicolo e il pretesto

delle “fughe” e dei “ritorni” nel passato mitico, che però Saglimbeni

trasferisce nel presente per farne luogo degli affetti rivisitati,

delle emozioni vissute: è ancora la campagna, è ancora la civiltà

contadina, ancora l’infanzia. E su tutto l’ombra di

un’evoluzio-ne/involuzione, di una (in)civiltà sospetta perché legata

a una lunga storia di illusioni e di inganni. Non meravigliano perciò

le sfumature amare di queste “favole poetiche” anch’esse destinate a

corrompersi insieme ai protagonisti. In fondo è questo il significato

dei sintagmi “ninnoli industriali”, “tempo eversivo”, “volatili

tecnici” e altresì della chiusa finale col ritorno a immagini care e

umili – ma quanto dense di colore! – del dialetto siciliano così

sempre vivo in Saglimbeni come la stessa terra di Sicilia.

 

L’epilogo non poteva avere scenario più autentico e familiare: “Sta

carusicchia dormi ‘nta sti vrazza/ si stutunu ‘nto cori li

marizzi…”.

 

 

 

Dopo Catabasi e lezione di umiltà, prefazionato dallo scrittore Paolo

Volponi, Saglimbeni ritorna ad interrogare il lettore con il titolo La

volta del libro e dialisi (Guanda, Milano, ’84), con introduzione di

Roberto Roversi. In appendice al titolo, viene ristampata la silloge

Suono per la tenera fronda.

 

Ancora Occhipinti scrive un profilo su La Volta del libro e dialisi,

che appare nel saggio L’ ultimo Novecento14, (Bastogi, Foggia, 1993)

ripreso successivamente nell’altro saggio Le confuse utopie15 e

completato con un’aggiunta riguardante, una delle ultime sillogi,

Chronicon (Edizioni del Paniere, Verona, 1990) introdotta da Giulio

Galetto.

 

Sebastiano Saglimbeni è tutto nell’epigrafe whitmaniana che apre il

suo “La Volta del libro e dialisi” (‘84): “ chiunque umilia un altro

anche me umilia/ e tutto ciò ch’è stato fatto a me ritorna/ infine”. E

non poteva essere diversamente: da laico, egli ha scelto una parafrasi

biblica che certamente Walt Whitman ha costruito sull’eco del

“discorso della montagna”. Qui, il poeta intraprende un cammino

interiore e ineluttabile più lucido, meno emotivo di quelli compiuti

nei libri precedenti. E se qualcosa rimane ancora, è il sentimento

dell’amarezza. La memoria non conta più, adesso: il tempo perduto è

irrecuperabile; la ragione dell’infanzia non è più il mito

identificabile nella terra lontana e nella lontananza degli affetti:

storia di vicende cruente come cruenta fu del resto la guerra che

travolse, con la Sicilia il mondo intero: “ Perché sdradicarvi/ a

Portellarossa, fondicello delizia. O/ ardervi se il pico non vi può:

vi pota/ vi educa, invece?/ Ricrescerete ad onta rigogliosi…”. Le

allusioni al dopoguerra, alle miserie, sono qui racchiuse in metafore

dense di storia privata e universale. Semmai, la Sicilia, in questa

poesia – la Sicilia più sanguigna e pregnante – è nella tendenza del

poeta a conservare la “ parlata”, quasi per un antico rispetto alla

parola d’ambiente, della quale Saglimbeni ha saputo fare buon uso in

certi suoi racconti e anche in Catàbasi e lezione d’umiltà (’79). Non

meraviglia allora la forma dialogica affabile e vivacizzata da termini

mutuati dal lessico siciliano (“non li faceva passare”: non li

promuoveva alla classe successiva: “trubuliatu”: tribolato). Siamo al

discorso che ci riporta alla civiltà contadina. Che però, in questo

libro, vive, semmai, nello spazio della civiltà della macchina: è

un’occasione per riflettere sull’attuale civiltà, così come

dall’attuale civiltà il poeta dirige certe sue riflessioni sull’antica

civiltà contadina. Questo vuol dire che ha aggiornato i suoi registri

tematici e stilistici ponendo su un piano di compresenza l’area

contadina della sua terra e l’area industriale: il serbatoio di

illuminati e illuminanti proverbi e il serbatoio di veleni

tecnologici. E tuttavia, egli è un integrato suo malgrado anche se per

sé serba uno spazio ideologico e di lotta come per una sua privata e

onesta contestazione (o adesione a quei princìpi che furono di Lo

Sardo, un suo conterraneo e “sua” creatura, avendolo riscoperto

all’attenzione della Storia). Semmai, quanto resta in lui dell’antica

sapienza contadina viene qui sviluppato in pensose riflessioni, subito

risolte in toccante sapienzialità, tanto che si potrebbe parlare di un

salmismo saglimbeniano con funzione codificante-decodificante. Da un

lato il poeta codifica aspetti di realtà e momenti di esperienza

legati alla tradizione e al colore della terra-stagione, dall’altro li

restituisce alla lettura, alla meditazione e alla sfera emotiva

altrui. Se infatti nel primo Saglimbeni, protagonista erano la terra e

il mito della terra-isola, adesso protagonista è l’uomo della terra.

Perciò cogliamo un’ansia nuova in questo poeta, ora molto meno ironico

e tagliente di prima, anche perchè nel frattempo si è fatta strada la

necessità di una mutazione salvifica che sembra sottrarci dalla

perfidia del quotidiano e dei tempi: “l’occhio s’alimenta/ persino di

ciò che selvaticamente/ rompe ed è/ spia ai limiti del perfettibile”.

O ancora: “… ma una natura non tutta/ è sbagliata: nel taglio la

lettura/ del gusto e viceversa…”. (Domanda-risposta). E questo a

sottolineare il suo splendido salmismo.

 

Sulla pagina culturale del quotidiano Gazzetta del Sud, Carmelo

Aliberti, si soffermava su Chronicon:

 

«Con Chronicon, recentemente edito con prefazione di Giulio Galetto e

disegni di Ernesto Treccani nelle E dizioni del paniere fondate dallo

stesso poeta, Sebastiano Saglimbeni, nato a Limina (Me) ed operante a

Verona, incide più profondamente la sua inconfondibile orma creativa

nella storia della poesia dei nostri anni. Senza variare la

traiettoria del suo “viaggio” dentro l’arcipelago realistico del suo

dettato, Saglimbeni opera un più verticalizzato processo di

interiorizzazione, ormeggiando all’ascolto degli echi di una sua tutta

interna e segreta storia, il ritmo travolgente della progressione del

tempo che il poeta affianca per poter sinotticamente cogliere gli

impulsi di antiche storie, le pause impolverate delle veglie, delle

fatiche, delle ansie e degli aneliti contadini, flagellati dalle nuove

barbarie della civiltà tecnologica, nel suono antico del quotidiano,

che riemergono dalla immancabile ferita del profondo, con il guizzo di

un verso inaspettato dall’assediante rifrazione bisbigliata, della

presa di coscienza del dissolvimento delle assolute certezze, della

crudele tregenda dell’effimero contingentismo. Le liriche che

compongono il volume sono prive di titolo e si susseguono con

scansione numerica, come le impronte geometrizzate dell’interiore

catabasi saglimbeniana sempre più dentro le viscere del destino delle

creature della sua terra, la Sicilia, dove l’autore nei ritorni

stagionali continua a ritrovare icasticamente inciso nella galassia

della memoria “come lacrimano/ frutti e alberi d’ incompiuto” (p. 15)

e dove le partenze si distorcono in “spartenze” dalla poesia del

paesaggio di una vita felice, metabolizzata nelle aeree scansioni

dell’anima, anche se i percorsi della nuova storia continuano a

registrare come “… s’annera/ la cronaca e si lotta l’agguato/ della

calura, il malessere addosso/ come un tronco pesante” (p. 15). I

frammenti lirici, condensati nelle sezioni “Partenza-spartenza” e “Gli

abissi del vizio” sono incominciati da un “epilogo” e corredati da da

un’appendice che ospita la traduzione (curata dallo stesso poeta della

famosa Egloga IV di Virgilio, simbolicamente utilizzata come emersione

dell’eterna utopia del poeta di una mai ripudiata palingenesi.

 

In realtà, le tessere delle pulsioni liriche di Saglimbeni, che

sembravano sventagliare nelle fasi più travagliate nella sua anabasi

verso le terre del Nord, dopo il più recente soggiorno estivo nelle

aree delle radici, possono essere ricondotte ad una unitaria

architettura strutturale, in quanto inguaiano in una sorta di diario

intimo il sotterraneo fiume dell’inesausta tensione della riflessione

sul male e sul dolore, sulle tossine, insomma, che avvelenano i nostri

giorni, ma anche il riaffiorare di una mai necrotizzata fiducia nella

“volta del libro”, cioè nelle umane occasioni della scrittura come

strumento gnoseologico delle più misere verità esistenziali o come

dialisi soterica all’imperversare del “cianuro del tempo” o come

impegnativo stimolo al recupero di una scintilla della folgorazione

escatologica. All’interno delle proiezioni effusive dell’io, sempre

più rastremate in rapporto alla precedente produzione e concentrate

attorno ai rapporti di rispecchiamento osmotico tra l’io e le cose,

tra la causalità degli eventi e tangibilità segnica delle stagioni,

tra l’arcaico strangolamento socio-economico del Sud che non varia

nella febbrile nostalgia dell’esilio(alla cui croce continua ad essere

suppliziato l’uomo del Meridione per il continuo accatastarsi di

errori e di colpe contro cui il poeta Saglimbeni ha sempre lottato), e

la cicatrice civile e morale che si protrae a sgocciolare assieme alla

non superflua perforazione inquisitoria contro le oscure forze che

determinano i mali dell’anima. Sulla scorta della lezione lucreziana,

che lo pilota all’interno dei materici labirinti del mistero della

natura, e con il sostegno dell’insegnamento virgiliano che permea la

sua riflessione di riecheggiamenti polidirezionali e globalizzanti

all’interno dell’oscillazione della storia, la poesia di Saglimbeni si

carica di una contenuta, quanto amara denuncia del dramma universale

dell’uomo e particolarmente della condizione di emarginazione e di

indifferenza verso il secolare dipanarsi della tragedia del Sud,

allora si può cogliere, dentro le effrazioni straziate dalla pagina

del poeta, i sussulti disperati della mai avviata a soluzione

“questione meridionale” assieme al sapore di ubriacatura della

battaglia resistenziale, inesorabilmente vista da Saglimbeni nei

risvolti disumanizzati di ogni ideale aspirazione: “…spense la

nuova/ luce degli alberi…” (p. 63); per cui anche “… si ritrassero

le api, /non vollero uscire a fecondare” (p. 63), a sigillo degli 2

abissi del vizio” della storia, di cui il poeta ha ripercorso i

capitoli idealisticamente più fulgidi o riarsi, senza tuttavia

smarrire la capacità di far vibrare ancora “suoni per la tenera

fronda”, cioè versi d’amore per gli affetti domestici e, più in

generale, un inno alla gioia di vivere per le generazioni future, la

devozione pel la sublimità sentimentale, l’attrazione per le

molteplici, morbide voci della natura, il fascino di un’era mitica

scoperta attraverso la poesia di Virgilio e riproposta con il candore

di una recuperata gioia, in simbiosi con i più alti perenni valori

della vita: “…Bambino, / incomincia a conoscere la madre, dal riso.

Inizia, / bambino: a chi non ha sorriso al suo sangue/ non ha mense di

Dio. Né letto di una dea” (p. 68). Poesia collegata emblematicamente

da un coerente filo tematico e da omogeneità di afflato lirico, che

possono sintetizzarsi nella calzante definizione di “poema

dell’anima”, attraverso cui Saglimbeni ha “letto” sia le biologie

minime dell’alfabeto esistenziale, che il senso recondito e oracolare

di un frammento della storia attuale che si dilata e scava dentro

orizzonti cosmici, alla ricerca e nella necessità del bisbiglio di un

inedito sentimento religioso della vita. Si configura, così, la

tecnica elaborativa del verso di Saglimbeni, calibratamente ancorato

ad un dettato epigrafico che s’informa, sia dell’icastica sinteticità

descrittiva, che di sinergiche e trasvolanti allusioni agli scenari

percettibili o surreali dei significati, sia dello schiudersi a

squarci di dolorosa confessione, che dell’evolversi tematico dentro

l’ermetica, apparente ruvidità lessemo-stilematica, più evidente dove

il poeta elabora bilanci sugli eventi della storia o pudicamente si

isola nell’entropia del proprio irrisolto, e forse pessimisticamente

irrisolvibile nodo del proprio pungente dolore, mas, in realtà,

vibrante di personali tessiture emozionali, percorse dalla ben dosata

duratura delle implosioni poetiche. Particolarmente adoprate

risultano, nell’impaginatura dei versi, alcune figure retoriche, tra

cui “l’enjambement” di diverse liriche, mediante la separazione

concettuali delle correlazioni sintagmatiche, serve non solo a

prolungare la pausa ritmica oltre la scansione tecnica, ma anche a

paradigmare, con più cesellata fissione, i motivi oggettuali,

avvolgendoli in più coinvolgenti iterazioni liriche. Frequente è anche

il ricorso all’epanidiplosi, particolarmente trasparente a p. 60-61,

dove l’iterazione all’inizio del verso dell’ingrediente terminale

contrappone il passaggio dalla scansione del soliloquio sentimentale

con un indeterminato alter ego lirico, all’abbordaggio del dolore

della storia listata di sopraffazioni e di lutti, di offese sociali e

di stupri ideologici ed etici, ad ulteriore conferma dell’elevata

funzione di sollecitazione e di denuncia, ma anche di edificante

progettazione, di cui la poesia, attraverso il ben noto ricorso al

“correlativo oggettivo della negatività”, può essere ancora capace».

 

 

 

La prosa

 

 

 

Alla seconda esperienza poetica del 1965, I martiri hanno l’acqua in

bocca/Le favole e la guerra, segue, a distanza di due anni, nel 1967,

quella narrativa con le prose I Domineddio (Ponte Nuovo, Bologna,

1967) con il sottotitolo, Il vino di padre don Mario e Gli accelerati

del ’64. Ne scrive una breve nota di introduzione lo scrittore

trevigiano Giovanni Comisso. Queste prose sono state ristampate

dall’editrice Fonema di Spinea-Mestre nel 1989.

 

Nel 1973, Saglimbeni, mentre alimenta la vena poetica, licenzia il

romanzo La ferita del Nord (Guanda, Parma, 1973). Seguono i racconti

Portellarossa, dal sottotitolo, Mandrazzi, l’Officina del corpo (Città

del sole, Verona, 1983); Operaie d’amore (Edizioni del Paniere,

Verona, 1985) illustrate da Ernesto Treccani, con una ristampa nel

1991; Cronache del poeta (Bonaccorso, Verona, 2002) con disegni di

Paolo De Pasquale. Resta inedito il romanzo Caminito amigo, scritto

nel 1990, ambientato, nella sua prima parte, in Argentina, a Quilmes,

nella seconda parte, a Verona. Sulle prose I Domineddio, Alberto

Alberti, uno dei primi che scrisse sulla genesi poetica di Saglimbeni,

scrive su “La Riforma della Scuola” una sua nota. Ma prima, dopo un

quadro sulla scuola, “l’altra scuola”, parla di altri due libri, Un

anno a Pietralata di Albino Bernardini e Le ragazze dell’Alberone di

Lia Giudice entrambi editi dall’editrice fiorentina La Nova Italia. Si

senta Alberti.

 

“I Domineddio di Sebastiano Saglimbeni è un libro in tre scansioni, la

prima, delle quali (quella che dà il titolo) eppure è quella che

artisticamente ci sembra più riuscita, è tuttavia di minore importanza

per il nostro discorso odierno. Viene da ricordi non remoti di un

paese siciliano, intessuti di piccoli fatti municipali,

sull’impalcatura sociale in stratificazioni di tipo feudale. Ed è

materia sanguigna che ti dà la misura di quanta strada c’è ancora

perché si attinga a livelli di civiltà e di cultura”. Le altri due

parti (“ Il vino di padre don Mario” e “Gli accelerati del ’64)

toccano più da vicino il problema della scuola in particolare, nel

momento in cui i piccoli comuni dei Peloritani fecero salti mortali (e

lo sappiamo per esperienza personale) per aprire anche “ sezioni

staccate” di scuole medie, onde garantire a migliaia di ragazzi la

possibilità di fruire di un diritto che la Costituzione aveva sancito

fin dal 1946. Qui Saglimbeni ha fatto la sua esperienza umanissima e

sofferta. Giova subito avvertire che l’intento suo non è quello di

scrivere un’opera pedagogica. Invano perciò cercheremmo suggestioni di

questa natura. L’Autore segue una sua ispirazione artistica che lo

porta felicemente a sfiorare temi scolastici. Sono i temi del primo

contatto con la scuola, la ricerca di una collocazione, l’andare

avanti ed indietro per treni accelerati; sono anche i temi della

miseria di una zona depressa, dei motivi di liberazione che

un’insegnante un po’ diversa cerca in un bicchiere di vino, della

volontà di recupero che può avere un allievo del manicomio criminale:

tessere e frammenti di un mosaico di fondo, quello costituito dai

problemi di cultura e di impegno civile che conosce una società in

crescenza, gravata ancora di pregiudizi e di disagi ma vogliosa di

scuotersi e di muoversi verso atmosfere più respirabili dove le

condizioni ufficiali non siano di ostacolo all’esplicazione delle

possibilità interiori di ciascuno. Su I Domineddio (2a edizione) una

concisa nota di Giulio Galetto appare sul quotidiano “L’Arena”17 del

25 luglio 1989.

 

(…) I Domineddio, un testo composto di tre prose che, pur dotate

ciascuna di una propria autonomia, si relazionano quasi come i

capitoli di un romanzo che elabora in forma narrativa una materia

insieme documentaria e autobiografica, il libro uscì nel ’67 con una

prefazione di Giovanni Comisso che diceva fra l’altro.: “Bozzetti

efficaci, originali, che risentono, certe volte, di quelle descrizioni

di Vittorini in Conversazione in Sicilia (…) L’orizzonte di un paese

siciliano, in una zona montana del messinese aspra e isolata, colto

negli anni dei cruciali cambiamenti che segnarono il dopoguerra, è

restituito con l’immediatezza di una prosa ruvida, tutta diretta ed

esplicita, insofferente di significati sottintesi e di abbellimenti

formali, scorciata con impennate e scarti di sapore naif. Si incidono

così le immagini di una umanità povera, condizionata da consuetudini

arcaiche, ma già capace di respirare l’aria dei cambiamenti,

l’insostenibilità delle antiche divisioni fra “cittadini” e “viddani”,

fra domineddio e “jurnatari”. Sono immagini che, dopo l’affresco

generale della prima prosa, diventano sfondo della più individuale –

ma ancora socialmente emblematica – vicenda del giovane professore che

va a insegnare fuori paese, che si scontra col grottesco conformismo

di modesti domineddio, che si dibatte con i nodi di un confuso ma

umanissimo “privato”. È un libro che richiama, per il bilicarsi fra

documento e narrazione, certi ricordi vittoriniani e, per i filtri

psicologici, certi echi quasimodiani; è un libro che risuscita anche i

fantasmi del neorealismo: datato, certo, da una rude, non spenta

vitalità.

 

Su La ferita nel Nord, senza alcuna nota introduttiva, a firma, sono

state scritte solo alcune recensioni di Giorgio Saviane, di Manfredo

Anzini e di Giuseppe Piccoli. Per le prose di “Portellarossa”,

Giovanni Occhipinti, che le prefaziona scrive: “(…) Ricordi con una

loro quasi drammatica inesorabilità, brucianti come l’incubo o come un

trauma che tarda a sanarsi. È da questo stato di sofferenza che

l’autore può muovere alla ricerca di un’identità, che ritrova nella

figura del padre(…)”. Per “Operaie d’amore”, Gualtiero De Santis,

che le prefaziona scrive: “C’è per intanto il valore di necessità

dell’oggetto rimembrato. Nel caso di Sebastiano Saglimbeni, le

immagini luminose di queste donne, povere e semplici, e però dedite

agli altri (familiari, collettività, poveri), rivelano il paesaggio

dell’infanzia e, al suo interno, l’equilibrio umano e morale che ne ha

governato le linee. Vibra insomma un’intima transitività tra le figure

della monaca, della maestra, della sorella e la situazione di chi

scrive: che non è solo psicologia, nel senso di un’incertezza

personale, e non solo riferibile al clima dominante, ideologico

politico storico, che ha oscurato la speranza di intere

generazioni(…)”. Su Cronache del poeta, ultimo lavoro in prosa, si

può leggere una breve e concisa recensione di Giulio Galetto.

 

Non esiste, se si vuole, ancora uno studio veramente mirato alla

scrittura prosastica di Saglimbeni. Sulle traduzioni, riguardanti le

Bucoliche, Le favole (quelle fedriane) e le Georgiche, si contano

alcune recensioni, tra cui Giulio Nascimbeni, Gianni Giolo e Giulio

Galetto scrivono sulle Bucoliche, Davide Mattellini e Galetto sulle

Favole. Beniamino Placido scrive sulle Georgiche, tradotte da

Saglimbeni:

 

“La poesia di Sebastiano Saglimbeni scaturisce dal profondo amore del

poeta per la sua terra natale, amore che si acuisce per la lontananza.

 

La produzione poetica sottolinea l’impegno sociale dell’autore che

denuncia, con un linguaggio incisivo e privo di retorica, i mali che

attanagliano da sempre la sua Sicilia.

 

La sua è una partecipazione sofferta ai drammi eterni della sua terra,

a cui vuole ribellarsi con tutto il trasporto e la passione tipica del

siciliano mediante il suo messaggio-denuncia. Il poeta rivive

intensamente questa triste realtà, da profondo conoscitore

dell’ambiente e della società isolana, ed adopera un linguaggio che si

piega alle sue esigenze, per approdare subito alla stesura

dell’immagine. Sullo sfondo di questa Sicilia tanto amata, ma tanto

derelitta, si inseriscono dei temi semplici, ma al tempo stesso

essenziali, di ampio respiro: l’amore, il dolore, la violenza, con

espressioni che, nella loro semplicità e nella loro estrazione

popolare, trovano grande forza espressiva : -… tua madre contadina

accolse la «malanova» / sulle colline del tuo paese : /… a lei si

fece sera / come nel tuo cuore / quando stava per staccarsi: / – ed

ancora : – le stesse messaggere di «malanova» / raccolsero dentro un

lenzuolo /… il tuo piccolo corpo di donna siciliana / vestito a

lutto / e l’adagiarono a casa / sopra il materasso di paglia d’orzo

/… Questi temi, che potrebbero scivolare nel colore locale, in un

sentimentalismo di facile effetto, sono immagini di una realtà

effettuale scevra da qualsiasi indulgenza folkloristica.

 

 

 

 

 

Saro’ un disertore della mia terra

 

 

 

Fatemi andare in questi giorni

 

d’agosto malaticcio

 

che strizza l’occhio

 

all’autunno.

 

Fatemi andare col fumo

 

delle frasche bruciacchiate

 

nel noccioleto:

 

le contadine con le anche

 

cioccolata

 

raccattano le nocciole.

 

 

 

Fatemi andare ora

 

che nel cielo sporco di nuvole d’acqua

 

il merlo saccheggiatore d’orti

 

lamenta i piccoli

 

mangiati dalla vipera.

 

 

 

Fatemi andare dall’isola

 

in questa agonia d’estate

 

capricciosa – ci nascose il sole –

 

piagnucolosa e avara

 

come queste terre.

 

 

 

Fatemi andare. Prenderò

 

un ramoscello dì gelsomino

 

che metterò all’occhiello

 

della mia giacca vecchia di poeta.

 

E la mia non sarà una licenza

 

d’alpino di fante d’aviere,

 

ma un congedo di vecchio soldato ferito

 

nelle punte mortali,

 

senza ridicole decorazioni:

 

sarò un disertore della mia terra

 

come tutti i poeti isolani

 

che muoiono fuori

 

con la nebbia sul cuore

 

e non vedono le rondini

 

pranzare insetti nell’aria.

 

 

 

I versi sono dettati da un’effusione sentimentale, di cui si rende

interprete il paesaggio: è una natura illanguidita, un giorno di fine

agosto che, con le sue nuvole, preannuncia di già l’autunno. Questa

atmosfera morta crea un clima di provvisorietà, in cui si inseriscono

la tristezza e la malinconia per la partenza del poeta dall’isola. È

un tema tradizionale, che ricorre spesso nei poeti isolani, il

rivivere con maggiore intensità l’amore per la Sicilia, proprio nel

momento in cui ci si allontana dall’isola. Qui, l’ossessiva iterazione

dell’anafora sgorga da un profondo sentimento di dolore del poeta che

ha convissuto la tragedia della miseria con la sua gente, in una terra

desolata, desertificata da un destino ostile, ma che, nel coatto

congedo, sente fibrillare nel suo cuore il candore dei giovani

siciliani ed è quasi sul punto di rinunciare alla partenza, anche se

sa che il distacco è inevitabile. L’iterazione insistente del “Fatemi

andare”, all’inizio di ogni gruppo di versi con i successivi richiami

di persone e del paesaggio, a lui tanto caro, esprimono chiaramente il

profondo dolore di chi non si vuole distaccare dalle cose care, ma il

poeta sa che “il congedo” è improcrastinabile “con tutti i poeti

isolani”, ma il romanzesco di gelsomino lo terrà legato alle radici

durante i giorni infiniti dell’esilio.

 

 

 

 

 

 

 

Il tuo piccolo fante

 

 

 

Te lo dissero le comari

 

mentre ritornavi dalla fontana del paese

 

con la brocca d’acqua

 

sopra la testa.

 

– Hanno tagliato le gambe

 

a tuo figlio Nino

 

in guerra!

 

Le gambe hanno… !

 

La brocca si scheggiò

 

e ti rimase il grido disperato

 

dentro la gola:

 

la tua faccia si fece cianuro

 

e misurasti la terra

 

sporca della tua acqua

 

e poi l’isterismo…

 

Le stesse messaggere di «malanova»

 

raccolsero dentro un lenzuolo

 

il tuo corpo svenuto,

 

il tuo piccolo corpo di donna siciliana

 

vestito a lutto

 

e l’adagiarono a casa

 

sopra il materasso di paglia d’orzo.

 

Scese dai colli il vento

 

nella notte:

 

picchiò alla tua piccola porta,

 

tu, povera morta di dolore,

 

sognavi il tuo piccolo fante;

 

il tuo piccolo fante, tra spasimi di febbre,

 

abbracciava una madre:

 

era la nordica sorella

 

d’ospedale, bella

 

al suo capezzale.

 

 

 

 

 

La violenza della guerra, il dolore di una madre, la vittima della

forza bruta, sono i protagonisti di questo componimento, dal costrutto

semplice e dal linguaggio quasi popolare ed incisivo. L’immagine della

madre che, alla notizia del figlio ferito, rompe il silenzio con urla

strazianti e le comari che si muovono intorno con un movimento quasi

ritmico, sembrano riprodurre le movenze del coro della tragedia greca.

È il dolore sincero, che segue però le regole esteriori, mimiche,

espressive e verbali ben definite e cristallizzate da secoli di

tradizione; anche il paesaggio, tracciato con rapidi tocchi, sembra

partecipe del dolore di questa piccola donna siciliana.

 

 

 

La resistenza alla terra gibbosa

 

 

 

Laggiù ti cercammo acqua al quinto, ma la messe

 

si postrò sul suolo, arso vetroso (pure questo

 

alla guerra ci voleva!) e al settimo dell’anno

 

tutto un aborto videro la terra, occhi affossati

 

e i sassi non divennero pani. Sonnino che aveva

 

la moglie paralitica, egli con mezza vita,

 

zappava in ginocchio, diceva parole al cielo

 

buone… ma dopo ci disse che il pero

 

non faceva miracoli e nessun albero arido

 

e ci alzò il bastone in faccia: «andate

 

a portare concime nei campi che il grano verrà,

 

il prete canta e il suo mestiere è questo,

 

concime portate!». E l’asina andava veniva

 

per viottoli pericolosi, con dietro un ragazzo,

 

scarno che aveva solo divorato un pugno di fichi

 

e castagne e basta fino a domani: l’asina portava

 

il concime, ma era affamata; il ragazzo cercava

 

qualche frutto dimenticato, ma gli uccelli

 

avevano più fame di lui… l’asina un cardo

 

sui cigli e ci cantava il gufo dove andavamo,

 

ci oscurava il cuore.

 

 

 

Un ombelico di terra sensibile

 

dopo tutto ci ascoltò e diede spighe:

 

Sonnino rise e ne guastò una nelle palme

 

baciò il grano, soffiò, mise in bocca pianse…

 

«questo è il Signore», ci disse. E l’aia era

 

una chiesa, la nostra piccola azienda, e pennuti

 

ci offrivano la musica classica, più bella

 

d’un organo di sacrestia, in cambio del grano

 

asportano (gli uccelli erano discreti però

 

non cercavano la metà come i compagni).

 

 

 

Questa composizione si può considerare più una prosa ritmica, che una

poesia vera e propria; lo stile è semplice, umano, privo di inutili

preziosismi e mette in evidenza la dolorosa fatica dei contadini del

Sud. Sonnino, il protagonista della «favola», che riflette una certa

amara realtà, è il simbolo dell’immutata vita nei campi del Sud, e

dello stesso poeta partecipe con sofferta tristezza di una realtà

isolana immobilizzata nel tempo, al di sopra di ogni mera e

oleografica rappresentazione folkloristica.

 

 

 

Incontro con Sebastiano Saglimbeni

 

Un Poeta Siciliano della Diaspora –

 

“Restare per lottare”

 

Sebastiano Saglimbeni, nato a Limina in provincia di Messina, vive da

molti anni al Nord. Ha pubblicato le raccolte di poesie E non ho

pianto (1961), I martiri hanno l’acqua in bocca oLe favole e la guerra

(1965), Resistenza alla terra gibbosa (1969), Catabasi e lezioni di

umiltà (1977), Suono per la tenera fronda (1980); due libri di

narrativa: I domineddio (1967) e La ferita del Nord (1973). È anche

autore di un testo teatrale. Le vergini sono in vetrina (1974).

Innumerevoli sono i suoi interventi critici sparsi sui maggiori

quotidiani italiani. Ha fondato il periodico culturale “Mondo

nuovissimo” e attualmente dirige con Sanesi le edizioni de “Il

paniere” con cui ha impresso un notevole contributo alla diffusione in

Italia della migliore poesia intemazionale della “resistenza”, dai

versi di Ristos all’urlo di Hikmet, ed ha riproposto, in agili e

moderne traduzioni, opere di Orazio, Catullo e Virgilio. Inoltre,

nella collana «presa-documento» ha riesumato inediti negletti di F. Lo

Sardo.È annoverato tra i più originali e fertili poeti siciliani della

“diaspora”.Partito da un polemico impegno meridionalistico, il suo

discorso poetico ha via via ammorbidito i toni aspri e viscerali della

aggressività primordiale, assorbendo le sanguinanti lacerazioni

sociali negli acri gironi di un ironico scetticismo, attraverso le

metaforiche trame di un racconto, in cui viene scagliata in sottofondo

la falsa realtà delle illusioni e dei miti, per una più realistica

presa di coscienza delle sperimentazioni della storia. La Sicilia di

Quasimodo, lido agognato degli assalti del “nostos”, si tramuta in

Saglimbeni in proiezione geograJBca di ima dimensione spirituale in

cui ha imperversato lo scempio della storia e che il poeta recupera in

un’esigenza di crudo e attualizzante bilancio, teso a creare le

condizioni culturali per una più equilibrata e produttiva

“resistenza”. In tale ottica si colloca anche l’attenzione del

Saglimbeni verso i “canti popolari liminesi”, “radiografati” nella

preziosità “archeologica” dell’inflessione quotidiana, quasi a voler

rintracciare nell’afflato plebeus le molteplici valenze di un intatto

patrimonio di valori, su cui poter tessere un ipotetico progetto di

redenzione.

 

Al poeta di Limina, nel suo recente soggiorno in Sicilia, abbiamo

rivolto alcuni quesiti, volti ad illuminare meglio alcuni aspetti

della sua intensa attività letteraria.

 

D. – Come si è rivelata in te l’esigenza di scrivere versi?

 

R. – L’esigenza di scrivere versi è venuta fuori da quando nelle vie

anguste (e che “odoravano di brodo di rape”) di Limina, mio paese

natale, si cantava e si suonava sotto le finestre delle donne, perché

queste corrispondessero. Ciò avveniva verso la fine degli anni

quaranta, all’indomani della Liberazione e c’era tanto bisogno

nell’umanità risparmiata di cantare, per alleviare le ferite create

dal conflitto mondiale. Le ferite erano le nere miserie d’origine,

raddoppiate dopo il sangue umano, inutilmente versato. Poi, avviato

allo studio, giacché la terra gibbosa e fradicia non avrebbe saziato

sebbene tanta opera educativa, ho incominciato ad assaggiare la

letteratura colta. La poesia, in potenza, come trasfusa dai canti

popolari liminesi, cominciava ad uscire dal suo primo stadio e,

diventando più espressione, si faceva anche alleviatrice di angosce,

forza interiore, speranza e, più avanti, andava riempendosi di

problematiche, di didattica.

 

D. – In che misura la realtà sociale della Sicilia ha inciso nella

elaborazione della tua poesia?

 

R. – La realtà sociale della Sicilia ha avuto costanti rivelazioni sin

dai versi di E non ho pianto, silloge esercitativa, debole, macchiata

come i primi frutti; ma desiderati, non rifiutati, una volta spuntati,

poi ne / martiri hanno l’acqua in bocca o Le favole e la guerra, in

Resistenza alla terra gibbosa, e, infine, in Catabasi e in Suono per

la tenera fronda. Certo non dovevo dimenticare la nostra area che è,

poi, come tante del mondo, lacerata, straziata da governi maligni,

contro i quali dobbiamo lottare o insorgere con l’arma micidiale

dell’espressione, come hanno fatto Lo Sardo, Gramsci, Ritsos, Hikmet

ed altri. Dovevo essere, io della Sicilia, con Quasimodo, per cantare

con lui le bestemmie di tutte le razze nell’isola. La mia poesia è

fatta di Sicilia, nonostante io abbia sentito quella di fabbrica, un

po’ quella sperimentale.

 

D. – Che ruolo svolge nella tua opera il mito e quale rapporto deve

cogliere il critico tra la tua “voce” lirica e la storia?

 

R. – In un’analisi, formulata alcuni anni fa da Alberto Alberti per la

“Riforma della scuola”, era venuto fuori il mito e la leggenda, a

proposito di alcuni spazi poetici della mia seconda esperienza I

martiri hanno l’acqua in bocca o Le favole e la guerra: per quelle mie

proposizioni calate nella storia della società siciliana, rimasta, per

certi aspetti, legata al passato. In me il mito non ha, comunque, lo

scopo di voler recuperare, disseppellire storie di estrazione

ellenica, ma di fare assurgere proprio a mito gli umili che provengono

dal popolo e per esso, veramente, si battono, senza tornacontismi, per

cui Lo Sardo, Salvatore Carnevale, le contadine che maneggiano

l’aratro, le madri che muoiono consunte per i figli che ritornano

dalla guerra senza occhi, gambe, braccia: per cui gli spaccalegna, gli

zappatori o gli educatori della terra: per cui, ancora, gli uomini dì

quella Sicilia umile, contadina, questi sono i miei santi, i miei

miti; e la poesia, che non deve indugiare nel passato per il

disseppellimento di ricordi, infanzie e innocenze perdute, come nella

stagione del decadentismo, deve contenere questo tipo di società. Sono

certo inevitabili i riposi lirici e il critico deve considerarli come

momenti poetici teneri ma che immettono nelle tematiche della storia.

 

D.-Anche in te, come in Quasimodo, un certo ruolo svolge il recupero

del passato. Qual è, secondo te, la differenza tra il Salvataggio

della memoria in Quasimodo e la tua proiezione memoriale?

 

R. – Quasimodo ha precisato, in occasione della laurea ad Honorem,

conferitagli nel 1959 a Messina, di aver lottato i decadenti. Io li ho

sentiti come protagonisti di una cultura grande, soprattutto in

Francia, e li ho studiati, ma non ho registrato gli aspetti che

propongono il passato, alla maniera

proustiana, quelli fatti di contrasto spirito e materia; forse sono

stato preso da certo sensismo, ma non dall’estetismo. Il passato, che

mi è venuto all’incontro nelle fasi delle mie formazioni letterarie,

ha giocato un ruolo storico, didattico e vuole – come è stato forse

chiarito – soprasalvare i simulacri di ieri tenuti come in cattività

dal prevalere di mode, di ideologie, di politiche inquinate. Per

questo, ultimamente, ho composto un testo per Lo Sardo, per la sua

lotta nella nostra area siciliana, per cui, non essendo stato

sopportato da una politica tirannica, viene imprigionato ed esce

morto, dopo cinque anni. Lo Sardo, da me collocato nella necropoli,

vuole assurgere a mito, recuperato dal passato, così come il padre di

Salvatore Quasimodo nel testo Al padre. E se si può aggiungere ancora

altro: in Quasimodo protagonista è la Grecia, la trasfusione di questa

che gli è pervenuta dalle poeticissime traduzioni dei lirici; in me,

epigono, è la terra, come disse, diversi anni fa, un singolarissimo

critico, Domenico Cicciò, come l’ha ripetuto, di recente, nel saggio

P(r)o(f)eti dell’Isolamondo, Giovanni Occhipinti, Quasimodo e altri,

sei considerato poeta della “diaspora”.

D. Perché anche oggi le migliori energie intellettuali fuggono dal

Sud e quale funzione positiva potrebbero ancora svolgere i poeti, la

cultura in generale per contribuire a migliorare la realtà

meridionale?

 

R- La mia “diaspora” ha motivi che vanno ricercati nella mia

inquietudine, non perché nel messinese non vi fosse stato il pane e la

realizzazione di formazioni culturali. Pur essendo in Veneto, qui ho

con me le ginestre, lecontadine dal viso di pece e dal naso arato; ho

il latte della mia terra. Le migliori energie intellettuali fanno

anabasi perché in esso non trovano la forza, la insistenza di

“realizzarsi”, come si suol dire, e che manca il senso della vera

lotta, delle iniziative. In questo modo, non serve parlare, come non

serve, resistere senza salpare, e fare studi, forti, rigorosi per

rimanere solo cibati di erudizione fatta di grammatiche per poeti o la

cultura in genere potranno determinare risorgimenti, perché ancora noi

siamo sotto il potere della ragion di stato, scellerato, crudele,

sadico nei confronti del bole; potrà la poesia o la cultura in genere

migliorare la realtà meridionale, se, dove nemo propheta, si continua

a fare resistenza alla società che si ciba di pregiudizi e non ama i

poeti, gli uomini che sentono di crescere con nel cuore i fiori, lo

studio. Il meridione si riscatta, resistendo nel meridionale: vedi

come Sciascia a Palermo è instancabile operatore: scrittore, e uomo

politico, seppure non accettato dal sottoscritto nel suo ruolo di

politicante. Basta, in altri termini, scrivere e non dormire, non

farsi prendere dal troppo riposo e dalle mosche “del meriggio”.

 

D. – Nel 1967 con I domineddio hai esordito anche come scrittore. In

quale area della narrativa contemporanea si può collocare la tua

ricerca e particolarmente quali parallelismi esistono tra il tuo

lavoro e quello di Sciascia?

 

R. – Con I domineddio, prosa scarna, godibile, nonostante sciancata

qua e là, ho voluto fermare una situazione sociale in Sicilia in un

periodo durante il quale si cercava di ricostruire l’Italia

sgangherata; ho fatto forse prosa neorealistica; per le tre denunce

riguardanti il paese Limina e la sua storia medievale e le due

esperienze d’insegnamento in due paesi del messinese. Per un rapporto

tra me e lo scrittore Sciascia, debbo dire che io avevo allora povera

vita culturale, ma iniziavo ad adoperare le mie armi del sapere. In

Sciascia, se posso un po’ riempire il quesito, v’era entrata la vita e

l’anima di certa Sicilia, in me incominciavano ad abbozzarsi discorsi

di denunce sulla storia del paese, accusato di malandrineria e di

delitti, sulla economia, sui costumi, sugli usi, sulla cultura

popolare, quella che mi nutrì con latte poetico.

 

D. Che cosa pensi della produzione letteraria di questi anni e quali

accuse muoveresti?

 

R – La produzione è vasta e tanto fradicio, dilettevole, commerciale

v’è in questa, ma si elevano opere, come quella narrativa di Stefano

D’Arrigo, Volponi, Moravia, mentre per il settore poetico penso che,

dopo Quasimodo, Ungaretti, Montale, tanti della IV generazione non

siano veri poeti, ma sono le loro case con il loro mare magnum

pubblicitario che li fanno apparire validi; la V generazione sta

lottando per avere recezione di critica. Tanti titoli non determinano

negatività, vuol dire che vi sono tanti che si dedicano

all’espressione in luogo di altro, magari deleterio. Le accuse vanno

verso quella forma culturale falsa, confusa, che vuole camminare di

pari passo con l’astrattismo, quello irrazionalistico, fatto per

apparire nuovi, ma non si è né tantomeno si sa fare la forma: meglio

il parlare latino, agevole, che, poi, non è di tutti.

 

* * *

 

Sono caduti nell’ossario del tempo sedici anni da quando scrissi su

Sebastiano Saglimbeni quanto sopra; il mio interesse ora per l’uomo,

il poeta, lo scrittore, il saggista e il traduttore, di recente, di

Virgiho e di Fedro, si intensifica di crescita bibliografica

saglimbeniana. Sebastiano Saglimbeni, dopo il 1981, ha continuato,

sino al 1993 a sviluppare le sue Edizioni del Paniere con titoli di

storia, poesia, saggistica, teatro e grafica. E debbo ricordare il

densissimo volume dell’Epistolario dal carcere di Francesco Lo Sardo,

I Discorsi che il grande umanista e politico Concetto Marchesi

pronunciò alla prima e seconda legislatura della rinata Repubblica

dopo la resistenza di cui fu sostenitore con scritti eccellenti e

lotte nell’ateneo di Padova. Sia l’Epistolario che I Discorsi sono

usciti a cura di Saglimbeni, di cui, a proposito, scrisse Guido

Gerosa, scrittore e storico, su “Il Giorno” del 24/8/86 che ”

Sebastiano Saglimbeni è un uomo di grande fascino, organizzatore

appassionato come pochi, poeta di stile elegante, speleologo di rarità

e finezze letterarie, creatore di fulgide occasioni poetiche…”.

Saglimbeni, come poeta, dopo Catabasi e lezione di umiltà, ha

pubblicato, con prefazione del poeta bolognese, Roberto Roversi, La

volta del libro (Guanda, 1984), le prose Operaie d’amore (Ed. del

Paniere, 1989) con prefazione di Gualtiero De Santi, saggista

urbinate, Chronicon (Ed. del Paniere, 1990) con prefazione di Giulio

Gaietto e Mielifìca la rosa (Ed. del Paniere, 1992) con prefazione di

Massimo Carbone, mentre come saggista Federico Garda Lorca (Ed. del

Paniere, 1988), Il Fiore e l’intenso – Il Garofano di E. Vittorini

(Ed. del Paniere, 1991). Su consiglio del latinista Mario Geymonat,

Saglimbeni ha pubbHcato una versione poetica delle bucoliche

virgiliane e le favole fedriane; sia l’uno che l’altro classico con

testo a fronte ed editi con la casa editrice Newton Compton, ’94-’95.

Chronicon – come ho scritto sulla “Gazzetta del Sud” – è un’opera con

la quale Saglimbeni “incide più profondamente la sua inconfondibile

orma creativa nella storia della poesia dei nostri anni” (13 novembre

1991). Pongo, dopo questi sedici anni e alla luce della sua nuova

posizione nella cultura itahana ed europea (Saglimbeni è stato

tradotto in Russia, in Francia e in Grecia), un quesito.

 

 

 

D. – Che cosa riesci a dirmi su questo fine secolo che si spegne

nebuloso, con scarse probabilità di impiego per la classe giovanile?

 

R. – Il secolo non si spegne nebuloso, né foriero di tragiche vicende

nella nuova società dei giovani, ma sì spegne con la ripetitività, che

sembra crudele, delle vicende di sempre, ad iniziare dalle palafitte

al recente ieri dei grattacieli. È la tecnica ch’è mutata, ma

l’Animale (o Uomo), dopo che vive un po’ in pace con se stesso e con

gli altri, vuole battersi con gli altri, perché è carente di qualcosa,

di protagonismo, ad esempio, ed è la forza della bieca natura, che né

leggi, né religioni riescono a mutare, anzi, spesso, peggiorano.

L’uomo, tuttavia, può essere lo stesso se riesce ad elevarsi

ributtando il “troppo” e il “vano”, ma non è sempre agevole. Allora,

da parte degli uomini che preferiscono la luce alle tenebre, occorre

opporre resistenza affinché prevalga, il più possibilmente,

l’equilibrio nei comportamenti umani. Ma non voglio dire altro, perché

potrei fare trita filosofia. (1997)

 

 

 

 

 

 

 

BIBLIOGRAFIA

 

Opere poetiche:

 

E non ho pianto (Ancona, 1961; I Martiri hanno l’acqua in bocca/Le

favole e la guerra (Firenze, 1965); Resistenza alla terra gibbosa

(Bologna, 1969); Catabasi e lezione d’umiltà Milano, 1977, con

ristampa nel 1979); La volta del libro (Milano, 1984); Cronicon

(Verona, 1990 Mielifica la rosa (Verona, 1992).

 

 

 

Opere di prosa:

 

I Domineddio – racconti- (Bologna, 1967; ristampa (Mestre, 1989); La

ferita nel Nord- romanzo- (Parma, 1973) Portellarossa- racconti-

(Verona, 1983); Operaie d’amore- racconti- (Verona, 1989), ristampa

(Verona, 1991); Cronache de poeta (ibidem, 2002); Caminito amigo (in

corso di stampa).

 

 

 

Saggi:

 

Ritratto d’uomo e d’opera di W. Whitman in Fogle d’erba (Verona,

1984); Federico García Lorca (Verona, 1986); Il fiore e l’intenso / Il

Garofano di Elio Vittorini (Verona, 1991), Larga vina (Vino in

abbondanza) Nei classici e negli autori contemporanei (Possidente –

PZ- 2004), Mal di caffè / Uomini e Caffè d’Italia (Possidente, 2005).

 

 

 

Teatro:

 

Le vergini sono in vetrina -commedia in tre atti- (Verona, 1974).

 

 

 

Traduzioni:

 

Bucoliche di Virgilio con testo a fronte ed illustrazioni di Ernesto

Treccani (Verona 1993), seconda edizione, (Roma, 1994); Le favole di

Fedro con testo a fronte (Roma, 1995); Georgiche di Virgilio, con

testo a fronte ed illustrazioni di Ernesto Treccani (Gallarate, 2002);

in corso di stampa Eneide, con testo a fronte; in corso di stampa

Liriche e frammenti di Saffo con testo a fronte.

 

Ha curato per l’editore Niccolò Giannotta Giustizia di Mario Rapisardi

(Verona, 1978) e Diari di esilio I – II di Ghiannis Ritsos, (Verona,

1978-1979). Con le Edizioni del Paniere, di cui è stato fondatore, ha

curato l’Epistolario dal carcere di Francesco Lo Sardo e I discorsi,

pronunciati alla Camera dei deputati da Concetto Marchesi. È autore

del manuale parascolastico Storia dell’arte (Dalla Preistoria all’arte

romanica – Vol. I – Dall’ Arte gotica all’Arte contemporanea – vol.

II), (Seregno, 1979). Alcuni suoi testi poetici sono stati tradotti in

lingua francese (Losanna, 1986); in lingua russa (Mosca, 1986). Testi

della raccolta E non ho pianto, I Martiri hanno in bocca, Resistenza

alla terra gibbosa e Catàbasi e lezione d’umiltà sono stati tradotti

in greco moderno da Crescenzio Sangiglio, (Salonicco, 1984).