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In occasione della Giornata della Memoria 2020 vogliamo proporre ai nostri lettori un toccante racconto, in versione integrale, della scrittrice Valentina Di Salvo, che ha partecipato al concorso “Impavidarte – La Biennale della Cultura” svoltosi a Nicosia (En) il 14 e 15 giugno 2019, e che ha conquistato un premio piazzandosi al secondo posto. Il racconto è stato inserito in un’antologia curata dall’associazione organizzatrice.

CICATRICE NUMERICA

Sapeva che per sopravvivere doveva tacere e ingoiare la nebbia che a piccoli morsi si prendeva la testa. Doveva ficcarla in un angolo dentro di sé e bloccarla per la moglie e la figlia.
Una cosa che stava cominciando a diventare sempre più difficile dopo aver visto l’epicentro di quel confine: un attimo prima la vita, un attimo dopo il nulla.
Aveva detto a Tom di non farlo, che colpire una SS non era la soluzione, non era niente, nemmeno un motivo di sfogo. Che non avrebbe ottenuto nessuna confusione, nessuno pretesto di fuga.
Le guardie erano armate e l’uscita dal campo troppo lontana perché potessero raggiungerla.
Ma Tom aveva dato azione alla rabbia gettandosi su una guardia.
Poi lo schiocco di uno sparo.
E sangue denso aveva iniziato a uscirgli dalla bocca. Mentre lo sguardo lucido di Tom si era aperto un varco nella testa di Federico dove si erano incise le mani che, piegate dai tremori, in un loop infinito, si avvicinavano allo stomaco pochi attimi prima di morire.
Federico cercò lo sguardo della moglie, ma lei aveva occhi così fragili e incavati da riuscire a leggerci i pensieri più tristi. Allora fissò la mano della piccola Anna che spariva dentro quella della madre.
E la nebbia, che si portava dentro qualcosa di pericolosamente estraniante, iniziò a sfumare nell’immagine benefica della mano della figlia protetta dalla madre.
Poi le SS divisero la folla in due gruppi e Federico venne allontanato da Anna e Margherita.

Ventuno cieli grigi, ventuno giorni senza riuscire a vedere né Anna né Margherita dall’altra parte del campo.
Federico passava le notti in una baracca dove non parlava mai nessuno, si tornava sempre sfiniti, si mordeva il pane in silenzio e si finiva per cedere sulle tavole in legno rimanendo soli con se stessi. Come se parlare concretizzasse tutto.
Nell’ultimo periodo erano rimasti poco più di dieci: altri uomini erano stati trasferiti oltre il confine visibile scomparendo per sempre. Non c’erano nomi da dare alle cose, nemmeno ai compagni per poterli ricordare.
L’ignoto era l’unica costante a cui bisognava abituarsi.
Ogni sera Federico allentava la nebbia ricordando quel giorno qualunque di una settimana qualunque quando, svegliandosi prima delle sette, non aveva trovato Margherita dormire accanto a sé.
Così si era alzato e l’aveva cercata in cucina.
«Buongiorno amore» l’aveva salutato lei con la voce melodica, «fa piano, Anna dorme ancora».
«Perché stiri così presto? Torna a letto con me…».
Margherita rispose con un sorriso e aggiunse: «Ieri ho comprato una camicia per te e volevo fosse pronta per il tuo incontro di oggi, considerala un portafortuna».
Federico l’aveva abbracciata di spalle, incrociando le braccia sul ventre di lei, assaporando la sensazione di essere l’uomo più felice del mondo.
Il ricordo riusciva ancora a cacciare la nebbia nonostante venisse continuamente attaccato dal rimorso di non aver capito, di non aver compreso la crudeltà dei dissidi sociali e di non essere fuggito in Svizzera quando si era presentata l’occasione.

Una mattina le SS li svegliarono prima del solito e li costrinsero a tenere la riga fuori dal capanno, in un’aria gravide di umidità.
Un’ora più tardi li scortarono dall’altra parte del campo dove si diceva ci fossero le donne.
Ed era vero, le donne c’erano. Tutte uguali negli abiti a righe, con i capelli corti e le fronti nascoste da un foulard annodato dietro la nuca. Anche loro tenevano la riga, anche loro senza risposte.
Tre uomini con il camice svolazzante attraversarono il campo, dottori dai volti rassicuranti che sferzavano l’attesa spegnendo i mormorii di sottofondo.
Federico non riuscì a capire perché le visite dovevano farle all’aperto e non negli edifici sanitari come le volte precedenti.
Vennero selezionate un gruppo di donne e ragazzine, portate al centro e circondate da SS e dottori. Poi qualcuno, in un polacco dall’accento sdentato, ordinò alle detenute di spogliarsi e di correre formando un cerchio.
Le donne, intimorite dalla richiesta, si lanciarono sguardi agghiacciati mentre le parole delle SS diventavano più rigide, perentorie, accompagnate da strattoni e colpi di manganello finché gli ordini non vennero eseguiti.
Così le prigioniere si tolsero i vestiti seguendo l’una l’esempio dell’altra. C’era chi incrociava le gambe e chi copriva il sesso con le mani. Solo poche tenevano lo sguardo alto, determinate a resistere. Qualcuna, forse ancora inesperta agli incontri dell’amore, piangeva lacrime silenziose.
C’era chi aveva sulle unghie dei piedi tracce di smalto rosso laccato, residui di una vita di cui si iniziava a dubitare.
Con lo sguardo Federico cercò Margherita ovunque ma Margherita non c’era, iniziò a ripetersi che forse era stata messa al cucito e che quindi si sarebbe risparmiato il supplizio.
Una guardia urlò alle donne di correre ma, non ottenendo risultato, alimentò l’ordine di insulti e manganello.
Iniziò una corsa di polvere e irrisione, di parole taglienti e di urla interiori più forti dell’udito.
Ad ogni giro una detenuta veniva bloccata e messa da parte finché al centro non rimasero soltanto le donne scelte dai medici, quelle che ancora trattenevano accenti di salute.
Poi fu la volta del secondo gruppo e infine del terzo.
E fu lì che Federico riconobbe gli occhi di Margherita, adesso privi di pensieri. Li fissò così tanto da cercare di riportare l’antica luce dalla memoria. Ma quegli occhi spenti ritornavano sempre, come l’anello rotto e dissonante di una ruota che gira.
Un dolore sordo tagliò il petto di Federico mentre un soldato colpiva più volte Margherita sulle spalle obbligandola ad abbassare le braccia, che lei si ostinava a piegare sul petto.
Il dolore del cuore richiamò la nebbia che, trattenuta troppo a lungo, si riversò con violenza immaginifica negli spazi della mente.
E Federico guardò Margherita con occhi nuovi, e la vide correre verso la spiaggia delle loro vacanze, raggiungere la battigia e continuare a correre lì, con la brezza salata sul viso e il sole tra i capelli scuri. Come fosse ancora una bambina. Poi la vide fermarsi e raggiungerlo sotto l’ombrellone, con le gote arrossate per la corsa, e dire di volere un altro bambino e baciarlo per sugellare la promessa.
L’incanto vivido del ricordo sparì quando uno dei dottori fermò la corsa e portò Margherita con sé, insieme alle cinque detenute più giovani.
D’istinto Federico si lanciò in avanti ma le SS che sorvegliavano il gruppo fecero scudo con i fucili dando il tempo ad alcuni compagni di trascinare indietro Federico evitando così l’ennesima morte.
«Mi-mia m-mogl-glie…» indicò con l’indice, frapponendo le lacrime alle parole, mentre le ginocchia cedettero alla terra.
Un compagno si piegò sulle gambe raggiungendolo giù e lo abbracciò: non esistevano parole da dire, non sarebbero mai esistite.
«Stanno arrivando» bisbigliò qualcuno alle loro spalle.
Federico si alzò trascinato dal compagno mentre le SS intimavano già di raccogliere tutti gli indumenti delle donne dividendoli per taglia.
A tratti Federico iniziò a sentirsi l’14665, sprazzi sempre più violenti, come un ritornello ossessivo e cadenzato. Erano i momenti in cui nella testa la nebbia iniziava a sparire portandosi via pezzi d’identità.

Il sole rischiarava il centro del cielo diffondendo raggi deboli e cupi, si ripeteva ogni giorno, epurato dall’effimera bellezza della natura.
Fu in uno di questi giorni che le SS irruppero nel capanno di Federico e lo scelsero per formare un nuovo gruppo, il gruppo, aumentando così il dissidio nel campo.
Loro, i sonderkommando, considerati dei privilegiati dal resto dei detenuti perché mangiavano più pane degli altri, indossavano un cappello a righe e non dovevano rasarsi i capelli ogni volta. Pur vestendo come tutti i prigionieri, non venivano più bastonati in pubblico, seguivano le SS senza tenere la fila, eseguivano gli ordini di qualunque natura fossero, sparivano per ore intere durante il giorno e non faticavano mai fino a sera.
I sonderkommando, che secondo l’opinione di tutti potevano ribellarsi, erano invece gli strumenti del campo.
Nessuno sapeva che ogni giorno le SS esaminavano i componenti del sonderkommando per uccidere chi ritenessero opportuno secondo criteri labili, al fine di prevenire l’eventuale divulgazione della verità.
I sonderkommando sollevavano corpi, cancellavano tracce, staccavano denti. Accompagnavano alle docce di gas chi non fosse più in grado di lavorare oppure i nuovi arrivati se esclusi dalla selezione iniziale. Ripulivano e smistavano sia il vestiario dei cadaveri che alcune parti dei loro corpi come tatuaggi, denti d’oro, eventuali capelli. Dovevano denunciare rivolte e, di tanto in tanto, seppellire corpi sotto la terra, quelli che per qualche motivo sconosciuto non potevano essere bruciati nei forni.
Il primo incarico di Federico fu di ripulire la camera a gas e bruciare i cadaveri nei forni. E tra vecchi e bambini gettati per terra come bambole rotte, dalle mani e dalle posizioni più strane, nella testa di Federico la nebbia iniziò a plasmarsi a contatto con la forma violenta delle immagini, assumendo il linguaggio dei numeri.
Numeri che inizialmente si limitavano a scandire sequenze di azioni purificandole da influenze di umanità:
1.distinguere i corpi nudi X da corpi Y e Z e portarli rispettivamente in posizione A, B e C;
2.mettere corpi di X nella carriola e portarli nei forni;
3.continuare fino a esaurimento risorse;
4.riempire le carriole con i corpi Y e portarli ai forni;
5.riempire le carriole con i corpi Z e portarli ai forni;
6.raccogliere e pulire eventuali tracce;
7. inserire i corpi uno per volta nel forno;
8.chiudere lo sportello;
9.azionare il forno;
10.cospargere le ceneri.

1.2.3.4.5.6.7.8.9.10.   1.2.3.4.5.6.7.8.9.10

Non più rughe, sopracciglia e nei. Tempo, espressioni, segni.
Non più pelle, unghie e labbra. Relazioni, tracce, parole.
Non più nomi, non più l’essere.
Solo numeri e ombre.

1.2.3.4.5.6.7.8.9.10.   1.2.3.4.5.6.7.8.9.10

Raccogliendo gli ultimi corpi, Federico notò quello di una bambina talmente minuta da non riuscire a distinguere la pelle intorno alle ossa. E dentro la testa la rete numerica fu scossa da un tremore aprendo così un varco di umanità: dallo spiraglio entrò l’immagine di una bambina di sette anni, senza capelli, con le gambe piegate l’una accanto all’altra e le braccia incrociate sul viso. Come volesse nascondere gli occhi perché incapace di guardare senza vedere.
I numeri, bloccati dal forte momento di commozione, non riuscirono a tornare.
Federico, spinto dalla sorveglianza delle SS, raccolse la bambina tra le braccia nonostante fosse privo di protezione numerica, sforzandosi di imitare le azioni precedenti ma, nel momento in cui adagiò la bambina sulla carriola, le braccia di lei caddero di lato mostrando il volto.
Anna.
Annetta.
Con la mano stretta in quella della mamma, era così che la ricordava. Con la mano in quella della mamma.

1.2.3.4.5.6.7.8.9.10   1.2.3.4.5.6.7.8.9.10   1.2.3.4.5.6.7.8.9.10

Tornarono.
Tornarono numeri di nebbia con la forza di un uragano.
Così l’14665 accompagnò la bambina nel forno.

«Ma cos’ha quello?» chiese uno dei sonderkommando al kapò, mentre sorseggiava un intruglio spacciato per grappa dalle SS.
«Non lo so ma fa paura. L’altro giorno l’ho visto fissare il cadavere di una bambina, prenderla come si prende un pezzo di legno e gettarla nel forno».
Anche il kapò bevve quello strano alcolico, necessario a calmare fame, stanchezza e rallentare la mente.

Solo di notte nell’14665 vivevano briciole di Federico. Allora nei sogni si concedeva la vecchia vita ritrovandosi nel salone di casa circondato di libri, con il calore della cucina di Margherita e il sottofondo della voce di Anna.

1.2.3.4.5.6.7.8.9.10   1.2.3.4.5.6.7.8.910.
Numeri sulla pelle e numeri nella mente.
Barriere.
Numeri che isolano, che vanno da sé.
1.2.3.4.56.7.8.9.10   1.2.3.4.5.6.7.8.9.10.

Una sera le SS irruppero nel capanno del sonderkommando obbligandolo a ripulire il terreno adiacente alla struttura medica.
Un lavoro che sarebbe durato tutta la notte.
A mani nude i detenuti presero le carriole e raggiunsero i luoghi indicati: qualcuno alzò la casacca sul naso per sopportare l’odore acre e pungente di disinfettanti e di morte.
L’14665 si avvicinò ai cadaveri accanto allo steccato iniziando a sollevarli sulla carriola per seppellirli dietro le camere a gas, dove il sole non batteva mai.
Ad un tratto iniziò a piovere e la terra si sciolse in fango, complicando le azioni.
L’14665 girò uno dei corpi rimasti a faccia in giù sulla terra, quando i lineamenti del volto che teneva tra le mani aprirono di nuovo una breccia nella rete numerica della testa. E Federico riconobbe Margherita. La sua Margherita. Con il ventre squartato e resti di materia sulla pelle.
Urla di dolore si contorsero nel silenzio dell’animo ma dalle labbra non uscì nulla.
La pioggia intanto cercava di cancellare le traccia e Federico la sentiva cadere sul volto come spilli che, graffiando la pelle, precipitavano poi nella terra.
Margherita.
Zigomi pronunciati e sporchi, naso minuto, labbra talmente sottili da sembrare una piccola luna, la fossetta sul mento che lui amava baciare sempre all’improvviso.
Margherita.
La rete numerica si cicatrizzò nella testa inghiottendo per sempre gli ultimi frammenti di Federico.
E l’14665 finì per saldarsi tra le cellule:
1.sollevarsi raccogliendo corpo Y;
2.metterlo nella carriola;
3.spingere la carriola fuori dal recinto;
4.arrivare nel terreno D, dietro le camere a gas;
5.gettare Y nella fossa insieme agli altri corpi;
6.prendere la pala;
7.coprire la buca con la terra;
8.cancellare le tracce della sua presenza nel terreno D;
9.tornare indietro e cancellare le tracce della sua presenza nella discarica dei medici;
10.posare gli attrezzi e bere l’intruglio alcolico.

1.2.3.4.5.6.7.8.9.10                   …                1.2.3.4.5.6.7.8.9.10

1.2.3.4.5.6.7.8.9.10.1.2.3.4.5.6.7.8.9.10.1.2.3.4.5.6.7.8.9.10.1.2.3.4.5.6.7.8.9.10…   …5.9.4.7…   …8.1.3.6… …2.5.10… …10…