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Vigevano da Mastronardi viene descritta come città provinciale, tutta tesa alla produzione, all’accumulo, a un tenore di vita sempre più alto. La trama de “Il calzolaio di Vigevano” toglie il velo a una borghesia arrivista, dimentica dei valori, avente come mira il denaro, in cui l’avere è la legge della vita, dimentica dell’ideale. E’ la storia di Mario Sala, denominato Micca, che non ha una fabbrica, lavora per altri, ma vorrebbe crearsene una e perciò lavora giorno e notte. Si trova un socio (padron Pelagatta), anche se sua moglie è contraria alla società; dopo un periodo fortunato in cui a sua volta può sfoggiare lusso e snobbismo da arricchito, riceve la cartolina precetto, deve partire per l’Albania. La moglie Luisa si trova un amico, non gli scrive più. Con questi vuole chiudere la società col Pelagatta e alla fine, avendo vinto la causa quest’ultimo, si ritrova senza un soldo. Mario ritorna dall’Albania, dimentica il torto subito e si rimette a fare scarpe, offrendole davanti alla stazione e attendendo l’occasione di divenire “padrone”.

Il secondo romanzo “Il maestro di Vigevano” ha un percorso caotico prima della pubblicazione. Viene modificato contro il parere di Calvino e alla fine otterrà la pubblicazione nella collana “I Coralli” di Einaudi. Il protagonista Antonio Mombelli (riferimento forse a Mombello, dove Mastronardi fu ricoverato, per un breve periodo, per squilibri mentali) vive con la moglie Ada e il figlio Pino in ristrettezze, per l’esiguità dello stipendio da insegnante elementare. Deve perciò dare lezioni private La moglie non si vuole adattare alle ristrettezze, vuole lavorare come operaia, mentre il figlio fa il garzone. Tutto questo contrasta con l’idea della “dignità” del maestro. Tuttavia riesce a convincerlo. Si dimette e con la liquidazione inizia l’attività calzaturiera. Ada è abile nell’imprenditorialità, nasce l’agiatezza, ma mentre si hanno condizioni alte di vita e di rivincita, in Antonio c’è il senso del fallimento, dell’inutilità e della decadenza morale. Il romanzo, come il precedente, ha un sorprendente ritmo narrativo che Vittorini considera interessante per le trovate, le invenzioni, per la mescolanza di dialetti lombardi, del Sud e dell’italiano. C’è in Lucio Mastronardi una straordinaria acutezza e capacità di sintesi, con satira della provincia negli anni del benessere, insieme alla denuncia che l’avere rinnega l’essere.

Lo sguardo di Mastronardi su Vigevano è senz’altro forte, a volte impietoso, talora anche feroce, ma aderente a tipi, situazioni e personaggi facilmente non lontani dal reale. Non per niente la narrativa di Lucio, non neorealista, richiama quella de “I Malavoglia” di Verga, con la differenza che nei primi si ritrova anche umanità. Molto riuscite qui sono anche le figure femminili, gergalmente definite: la Luisa, la Marion, la Ada… Il libro ha anche fortuna con la sua messa in scena in film, interpretato da Alberto Sordi e Claire Bloom. La triade si completa con “Il meridionale di Vigevano” in cui il protagonista è Camillo, un agente delle imposte. Con la moglie Ines vive in un caseggiato fatiscente. Il salario è misero; consuma i pasti in osteria e vede la televisione nella saletta di una pasticceria. Una sera arriva un industriale con un gruppo di amici (sudditi). E’ Girini. Prende l’aperitivo con il gruppo; il suo interesse è prestare soldi per la “Ca”, da usuraio. E’ un’umiliazione per Camillo di fronte alla esibita opulenza, acuita dalla prostrazione continua dell’emigrante, più temuto che rispettato, per il suo lavoro, in una città piena di pregiudizi verso i “terun”, come se provenire dal Sud fosse indice di inferiorità. Anche questa volta non si tratta di neorealismo, ma di un impasto verista che si attua mediante un vivace, fresco uso della lingua.

A questi romanzi vanno aggiunti “La ballata del vecchio calzolaio” (1969), “A casa tua ridono”, “L’instituteur di Vigevano”. Purtroppo Mastronardi chiude la sua vita col suicidio gettandosi nel Ticino. Notevole mole ha il suo lavoro letterario con capacità di mettere a fuoco luci e ombre della trasformazione sociale dopo la guerra, la migrazione dalle campagne del Sud, per mancanza di strategie imprenditoriali, scarsità di fondi erogati, a pareggiare la diversità dal Nord, favorito dalla nascita di grandi aziende.

Mastronardi, ha dimostrato acutezza nel leggere “il male del vivere” del suo tempo, inserendosi a pieno diritto fra i narratori del Novecento, si è però alienato tanta parte di quella piccola borghesia intorno a lui e così anche nell’ambiente scolastico, avendo tratteggiato insegnanti poco portati a quella missione e metodi da non più considerare. E’ stato in grado, come fu affermato “di identificarsi nella coscienza paesana e incarnarsi nel muoversi a gesti dei paesani”. Meriterebbe quindi molto di più di quanto ha avuto e essere ripreso, riletto, amato.

Carmelo Aliberti, in questo suo saggio, come in tanti altri, in un lavoro continuo, appassionato, da sempre teso al senso della giustizia nell’attribuzione dei meriti, cerca di riportare “il vero” nella letteratura, ma come sempre, gli scogli che la verità deve superare sono tanti e non è solo il tempo a voler fare dimenticare.

Lucio Zaniboni