Condividi:

LO SCRITTORE  DOMENICO CICCIÒ
“La cultura come destino”
PREMIO ALLA SAGISTICA DOMENICO CICCIÒ , Università di Messina – 1989

Domenico Cicciò, nato a Nicosia in provincia di Enna il 12 dicembre 1937 ha studiato alla scuola dei Padri Salesiani di Randazzo (Catania), intraprese la carriera giornalistica nella “Gazzetta del Sud”, di cui curò “La gazzetta letteraria“ fino al giorno della sua prematura scomparsa avvenuta a 37 anni, il 24 giugno 1971, quando il suo cuore claudicante cedette agli assalti del “clandestino” annidato da tempo nel suo organismo, un segmento della sua vicenda temporale può essere incorniciato aula “la cultura come destino”. Infatti, non solo egli profuse le sue energie intellettuali nell’esemplare impegno quotidiano di redattore del giornale della Sicilia e della Calabria, lavorando dieci ore al giorno, con il lodevole risultato di “imporre” la “gazzetta”, da lui curata, tra le più apprezzate pagine culturali dei quotidiani, attorno a cui presto si raccolsero alcune tra le più autorevoli firme della letteratura siciliana e nazionale, ma dispiegando anche una intensa di ricerca nelle polimorfiche sezioni dello scibile, traslata, con tale capacità professionale, negli innumerevoli interventi che, sul dato della cronaca, dell’episodio di costume, dell’evento culturale e alimento ideologico, apparivano frequentemente sulla terza pagina del giornale, a testimonianza degli eclettici interessi e della necessità co-intellettuale di offrire al lettore una decrittazione più obiettiva-critica del tema affrontato, per sottrarre l’evento alla eccessiva quota di equivocità, con il conseguente recupero delle valenze parenti di credibilità. In modo coraggioso e dotto, a volte di esercitare la propria professione, che contribuì ad incidere Domenico Cicciò nell’albo d’oro del giornalismo letterario italiano. Oltre all’esercizio critico, Cicciò proiettò la sua fantasia anche nella creazione creativa narrativa del teatro. Il concreto esito del precoce richiamo all’attività letteraria fu il volume “Tre poeti paralleli” pubblicato nel 1956, a soli diciannove seguito da altre annotazioni esegetiche su D’Annunzio e sul Famismo, filosofica molto realisticamente contrapposta agli astratti bizantini-ologici del cerebrale proliferare degli “ismi” dell’era del capitalismo avanzato, avviata a nebulosizzare gli agonizzanti rigurgiti post-romantici e “entusiastici, per dar vita, invece, ad un sistema di pensiero, incentrato sui motivi famistico-biologici delle poliprospettiche sfere del contingentismo attivo, dal microcosmo speculativo a quello estetico, etico e sentimentale, supporto di un breviario scientifico di indagine che dalle zigrinature le darwiniane traeva le più solide radici, amplificate su inediti pragmatici con una ben pilotata metodologia personale. La tesi della cosiddetta “danza del corpo”, alimentò anche la sua “vis” critica ed inventiva, le cui testimonianze elaborative dovrebbero vedere la luce in un unico volume, come suggerito dal compianto scrittore messinese Mario Rappazzo, direttore della rivista “Prometeo”, legato al Nostro da un inossidabile legame affettivo. A testimonianza della carica sinergica delle lapidarie e globalizzanti formulazioni estetiche, in “La parabola della critica” si legge: “Nella tua danza, io critico, vedo, devo vedere, il tuo corpo, quello che hai mangiato e quello che vorresti mangiare, in chiave ritmica, non digerente. Se un uomo ha mangiato il meglio della civiltà di ogni tempo suo, può scrivere una Divina Commedia… Nella danza corporale il circolo “arte-morale e uomo-artista”, attuato nei migliori artisti di ogni tempo, teorizzato confusamente dal Romanticismo, definitivamente si ristabilisce”. Sorretta da tali convinzioni teoretiche “in progress”, (dopo aver nel 1965 catalogato con filologica pazienza tutti gli articoli pubblicati dai quotidiani italiani nella ricorrenza del settimo centenario dalla nascita di Dante Alighieri), Ciccio riversa la sua attenzione sull’opera del poeta catanese Domenico Tempio, di cui all’inizio degli Anni Settanta pubblica, per le edizioni Marvos, i primi due volumi commentati. La fame e La carestia, corredati da una vasta introduzione critica e da un ricco apparato di note esplicative delle complesse rifrazioni tematico-semantiche della struttura linguistica e dell’universo storico-sociale, in cui è possibile rintracciare gli ingredienti di un procedimento epistemologico, impregnato su una sapiente fusione tra ricognizione filologica e decodificazione oggettuale, tra perforazione sociologica e anatomizzazione delle effrazioni emozionali dei lessemi e delle commistioni stilematico-gergale, della polivalenza tonale ed emblematica dei significanti e la pregnanza realistica dei significati, risucchiati dentro l’alveo di una speculare condizione di emarginazione umana che promuove le articolate sfaccettature della miseria popolare a scenario policromatico e dialettico della storia umana, sospesa tra combustionante discesa corporale agli Inferi e anestetizzante anabasi verso gli esaltanti pascoli del “fuoco corporale”, vissuto dentro le quinte di una titanica, anche se apparentemente umile, e ironica follia. Ripercorrendo, con l’obiettività rinsaldata dal tempo, le sue esplorazioni critiche, sia relative alle novità editoriali, sia dei più scottanti problemi culturali e di costume, al riconoscimento per l’acutezza del critico, si deve aggiungere una valutazione più globale sul terreno della storia della critica, che, in Ciccio annovera uno degli ultimi eredi dei grandi maestri, libero e originale pensatore, di una profonda dottrina e di una probità intellettuale, resistente ad ogni forma di “inquinamento” clientelare, interprete di un’etica professionale che si impone come strumento di rivelazione dell’abnorme e del marcescente esistenziale, come denuncia del pervertimento e della corruzione, come esame di coscienza e come squillo morale per tanti pseudoapologeti che in questi anni hanno contribuito al degrado qualitativo della produzione letteraria italiana e del costume professionale, in cambio di prebende diversificate, di onorificenze accademiche, di poltrone giornalistiche e televisive che hanno declassato l’intellettuale italiano da “homo sapiens” in “animal sitiens” della più deteriore ascendenza famistica. Dal parallelismo tra Foscolo e Brown, all’intervento sull’Epistolario sentimentale di Verga, analizzato in polemica con Montale, dall’Hobby del Capuana, alla problematicizzazione dell’estetica crociana, colta tra luci e ombre in II punto su Croce, dal bilancio critico dell’opera di Vittorini (redatto in occasione della sua morte) di cui radiografa i diversi tempi attraverso il punto nodale della crisi, trasparente ne Le donne di Messina, e l’esaltazione dì Conversazione in Sicilia, considerato come il momento più alto della lirica vittorianiana, Cicciò distingue sempre, nella scansione critica, espressioni di obsoleta logorrea verbale da occasioni di schietta perfezione letteraria, proiettando la decodificazione testuale nel più vasto contesto dei valori assoluti, mediante l’incondizionabile perforazione operata con strumenti critici ben afflati, come, tra l’altro si evince dalla obiettiva spregiudicatezza, con cui anatomizza il “caso” Maraini, in uno scandalo letterario. Prendendo spunto dalla “bagarre” scatenatasi attorno all’assegnazione del premio internazionale “Formentor” al romanzo “La vacanza” della Maraini, tenuta a battesimo dal prestigioso partner Moravia, allora presidente del suddetto Premio, Cicciò, stroncando, con il supporto di una severa certificazione critica applicata soprattutto alla strutturazione dialogica, l’opera della giovane scrittrice anche la dilagante decadenza della società letteraria che non ha lasciato immune neppure il grande autore de “Gli indifferenti”. Gli esponenti polivalenti della fantasia di Cicciò si cimentano anche con l’espressione teatrale, di cui ebbe il tempo di “lasciare” solo quattro testimonianze: “Corradino di Svezia”, in concreto una semplice esercitazione giovanile scritta a 16 anni; “Sabotaggio al teatrino delle marionette”, purtroppo ancora irreperibile; “Le donne si servono a caldo”, di cui si è ancora alla ricerca del secondo e di una parte del terzo atto. Il quarto lavoro, scritto probabilmente tra il 1966 e il 1967, intitolato “Dite anima, dite corpo”, fu pubblicato, per la prima volta, sulla rivista “Cultura novecento” (che nel 1979 dedicò a Cicciò il primo numero), nel cui protagonista Francia il giornalista-scrittore Biagio Belfiore individuò l’alter ego dell’autore, mettendo in evidenza come “in lui operarono due spinte contrapposte, l’una verso mondi fantastici, l’altra, di contro, verso la condizione umana fatta dalla miseria di ogni giorno”. E rileggendolo e studiandolo, Mimmo mi appare un uomo in difficoltà in un mare che egli avrebbe chiamato “procelloso”: affiora per ossigenarsi, ritorna poi nell’abisso della realtà soffocante e poi ancora su e ancora giù… una forma teatrale “che attraverso la contrapposizione costante e viva delle tesi e dell’antitesi, consente l’esaltazione di un concetto, lo svolgimento di un principio di vita o di morte, di sofferenza o di gioia, pone su un soffice tappeto la schiera dei sentimenti”, dissotterra con l’irresistibile arma razionale del dialogo il nudo profilo dell’universo interiore, baciando la subdola maschera che imprigiona il vero volto della vita sotto le incrostazioni della civiltà consumistica. Per cui il teatro del Nostro, oltre che affidare al sortilegio della fantasia in messaggio di verità al servizio dell’avvenimento al vertice più ambito della rappresentazione oggettiva, estraendone abilmente il soffio segreto della pudica, frammentaria, ineffabile e vera poesia della vita. Anche l’attività narrativa di Cicciò rivela, sotto i paludamenti formali del racconto e dell’elzeviro, ima peculiare originalità, in quanto i vari brani possono essere letti come matrici di una visione integrale dell’esistenza che, attraverso la diafana orizzontalità della cattura dei molteplici lacerti fattuali, rivela una globalizzante verticalità di lettura del variegato e sfuggente macrocosmo del nostro tempo. Così, sia quando rappresenta la disperata ed alienante vicenda di Carmela ritagliata nella zoomorfica e pietosa attività riproduttiva, sia quando si pone in ascolto delle aggrovigliate vicissitudini di tanti altri personaggi, socialmente emarginati o relegati nelle singolari manie persecutorie ed eversive, sia quando indaga nei sofisticati livelli della società alta e potente, lo scrittore appare costantemente proteso a dissotterrare le più autentiche ragioni del male e dell’infelicità, sorretto dal correlato progetto epifanico delle sedimentazioni delle menzogne e dei sortilegi categoriali, al fine di recuperare i lineamenti più autentici della creatura umana, in modo che l’uomo, riappropriandosi della preconsumistica condizione di purezza del suo Essere, possa più fideisticamente riprendere il suo accidentato cammino nel tempo, proteso alla creazione di una società più razionale, fondata sulle coordinate illuministiche di un nuovo Umanesimo cosmico. A conclusione di queste sintetiche e certamente non esaustive note, ci sembra doveroso sottolineare come l’opera di Domenico Cicciò rappresenti uno dei documenti morali più significativi della nostra vicenda letteraria che la auspicata pubblicazione dell’ “opera omnia” consentirà di apprezzare o catalogare più compiutamente.

Da letteratura e società dal II OTTOCENTO FINO AI NOSTRI GIORNI
Prof.re Carmelo Aliberti
(poeta, scrittore e critico letterario)