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Poeta della Storia

IL  LICANTROPO  E  LA  LUNA

Rime di Carmelo  Aliberti
Dedicate a Consolo, tra taglio saggistico
E creatività melica  di attica grazia
Critica in versi? E perché no! Carmelo Aliberti, docente di Italiano e Latino  ha insegnato per un quarantennio  nei Licei di Barcellona-P.G. (Messina), dedicando un’intera vita, oltre che all’azione formativa dei giovani discenti, anche ad una intensa attività letteraria di diffusione  e di  promozione  della Cultura in molti Comuni del messinese, in Italia e in Università straniere, dove è stato invitato,tra i relatori di vari Convegni su Tomizza, tradotto anche in croato, al Forum Tomizza di UMAGO,a quello sulla poesia italiana da Leopardi,,a Quasimodo e Aliberti, in Francia, ancora sul problema delle frontiere negli autori europei (Francia), a quello recente su Poetica e Filosofia in Carlo Sgorlon, svoltosi all’Università di Udine,di cui sono in uscita gli Atti,a cura della Università organizzatrice. E’ Cultore di Letteratura Italiana all’università ed è stato insignito dal Presidente della Repubblica  dell’onorificenza di Benemerito della Scuola,della Cultura e dell’Arte. Le sue opere di saggistica letteraria e poesia sono state tradotte in 15 lingue. Ha fondato e cura la Rivista Internazionale di Letteratura TERZO MILLENNIO, diretta fino alla scomparsa dal Maestro Prof. Giorgio Barberi Squarotti, e ora dal prof. Jean Igor Ghidina, docente di Italianistica alla Blaise Pascal- Francia. Dopo la recente “Letteratura e Società Italiana dal II Ottocento fino ai nostri giorni” in 5 volumi  di 3000 pp. e il nuovo  saggio su Michele Prisco, scelto da ARACNE  Editrice di Roma, ha pubblicato recentemente il romanzo “Briciole di un Sogno”. Le presenti  “Rime dedicate a Consolo” sono edite dal Circolo Rhegium Julii di Reggio Calabria, di cui Aliberti è stato vincitore per la poesia inedita, che edita. Non è certo semplice essere valido sintetizzatore dell’anima isolana sonora e solare, favolosa e affabulante, tragica e favolista, terrigna e metafisica, orfica e orfana, polifonica e solitaria. Di questo va dato invece totale merito all’Aliberti, e a questo suo “poemetto” il quale, con metafore scintillanti, epifanie semantiche improvvise insorgenze cromatiche e ossidriche combinatorie di segni, traccia storia e memoria del “suo oggetto” poetico (vale a dire lo scrittore Consolo per cui dimostra di avere ferma devozione), in contemporanea con una sorta di “autoritratto” per interposto “maestro”, con una desiderante trasfigurazione intellettuale e morale. Alla ripresa dell’operazione poetica, ma anche politico-culturale di Consolo (per rimandi o accenni,citazioni o allusioni), Aliberti  affianca un tessuto di propria creatività, sorprendentemente sospesa tra taglio saggistico e melica voce, critica senz’altra attenuante e attica grazia. In filigrana, uno straordinario paesaggio isolano che sconfina con secoli di sangue, di separatezza,di luce e di lutto. Di nomi. Di luoghi. Di lacrime

CLAUDIO  TOSCANI

Critico  letterario

(da  AVVENIRE)

La teca verde dei Nebrodi

In cui fermentò il sangue  e la speranza

Della rorida ferita dell’aprile,

l’aorta frastagliata d’arenaria

con il santuario  proteso ad inghirlandare

il seno della pomice e del cielo,

–carrettieri,zolfatari,piscaturi,

femmine nere,picciotti disperati

fenici,greci,normanni e saraceni,

angioini pupari,santi banditi e verdurai,

ombre misteriche,fantasmi innamorati

scintillanti nel mattatoio delle zagare.

licantropi che abbaiano alla luna

-l’oro,le arance,il viola

Distesi sui guanciali dell’azzurro

Che tra scaglie palpitanti modula,

con le ombre metafisiche e i misteri,

“tra gli argini di malta e sabugina”,

una ferina incandescenza d’aria,

-Militello,Capo d’Orlando, Barcellona,

Milazzo ubriaca di ciclamini,

Villa Piccolo, Pantalica, Milano,

Racalmuto,il Caos, Milano,

Sciascia,Lucio Piccolo,Nino Pino,

e dentro gli ipogei della tragedia,

Tu,con la bufera delle sillabe,

calde di onde,di suoni, di memoria,

prigioniero di Lunaria e del potere

s scandire nel diuturno esilio

i riti blasfemi dei baroni

reclusi in follie di possesso,

squarciati  dall’Essere

e penzolanti al ramo dell’Avere.

Una lunga catena di amore e di odio,

di ferocia,di riscatti inesplosi,di sterminio.

A marzo nel tepore della notte

subliminata da mandorle e viole

dalle viscere infrante del Vulcano

brillano le luminarie a Salvatesta

risucchiate nel biviere di Alfarano

pronte a riesplodere sui lidi del Tirreno

nelle ferie d’agosto,

e rivoli di porpora ingrottati

straripano  nel calice del Sole

a seminare eccidi sull’asfalto

per l’uva,i pascoli,il sentiero,

per l’oro giallo,bianco e nero

-Bronte, Mylae, Termini Imerese,

Fantina,Ragusa,Villafranca

Comiso, Melilli, Gibellina,

Mandrazzi nelle orge di vento della storia

Con tetti e imposte mutilati

Ospita nidi di ciaule e di gufi

Che immobili  negli anni attendono

l’eco  di un piede umano

e poi  lieti andarsene  oltre le nubi,

consapevoli di aver atteso   un’ombra invano.

Alla stazione nella notte stralunata

Il proscritto vagola sui selciati ignoti

Dove si frangono

I laceranti  concerto dell’addio

Dentro celesti cupole di libertà perdute,

mentre nell’anima straziata

vibra dentro piaghe violentate

la fragranza del pane dell’infanzia

e il licantropo squarcia le ansimanti ombre

-il fiato appeso al corno della luna-

Con lo strozzato urlo dell’ucciso.

Ora il tempo inanella tra le dita

La necropoli dei vivi di Bafia

Dove dentro le labbra spente delle mura

Sfavillano incaute perle

Di speranza in attesa

Del precipizio dell’aurora

Dalle vellose fessure delle Rocche

Merlate sentinelle sull’abisso

Tra Passo dei Lupi e Garamante.

Tu,ora emerso dai gorghi di Plumelia

Con la fiaccola dentro l’alveo della mente

Ti inoltri vacillando nel mio abbraccio

Dentro le squillanti  reliquie della storia

Dove ancora ansimano nel cranio di pietra

Gli echi mistici dei riti del Bosco

E mi sospinge con le tue creature

Tra i lemuri superstiti del tempo

Di questo nuovo secolo sospeso

Alla ragnatela di ori  ripugnanti

E mi chiedi

notizie di Filippo Damante

dell’Orante, du Muzzu,di ‘Nzunzù

delle favole antiche e delle streghe

che popolarono le laiche chiese e i querceti

che ancora denudano radici

alle sorgenti del Longano e all’Acqua  Santa.

Tu mi chiedi ansioso disperato  del dio

Di quali dio confortò il dolore

Di queste anime morte seppellite

Sotto la nuda gleba di Piscopo

Dove  ancora “Nottetempo casa per casa”

I piccoli falò fremono

Di silenzio,di pianto e di preghiera

Per le stragi che i demoni  dei forni  crematori

Compirono con il fuoco della cera umana

Che hanno insanguinato  l’Europa

E che ora altri mostri del potere

Vogliono  seppellire per sempre

Con invisibili virus  alleati.

Qui arresi tra le mura

Nella tregua ai piedi del Maniero

I disertori di una inestinguibile paura

Cercano un rifugio sicuro  dal terrore

Prosciugò anche il sangue  nelle vene arse

Tra ululati  di sogni ed agonia

I semi incandescenti della parola

pietrificata nella malta e nel pantano,

dove solo le conchiglie lucescenti

si sottraggono alle menzogne della notte

restando invisibili in apnea nel fango

in attesa che le ronde della morte

varchino l’implacabile Acheronte

e le anime morte possano risorgere

nel teatro  abbagliante del cielo.

Ora che immensi  funghi atomici

Aggrediscono con nuvole nere

La visione di uno spiraglio di vita

Ora tu cerchi tra gli avelli

Con la luminescente  cecità di Omero

Un flebile alito del cuore

Che possa ridestare altra vita

Per cancelli  il ricordo

Della violenza,dell’insania e dell’orrore

Con la dolcezza della parola ripiumata.

E Voi, nuovi credenti della sacerdotessa Artemide

Che vento e tempesta vi sospingano

Verso i sarcofaghi porosi di Pantalica

A ritessere il velo delle Grazie,

mentre veleggiate tra gli imenei

zigrinati del sapere,non voltatevi indietro;

la città di Dite si gretola

dentro altri roghi di nubi tossiche,

e il pianeta già colmo di veleni

mostra segni incontrollabili

di agonia nel pianto delle statue

nelle epifanie rivelate a bimbi puri,

in tutti quelli che piangono

e nell’animo  ardono della tua carezza melica,

nuovo Orfeo  siciliano,

dolce  cantore di felici memorie e di miti.

Predatore salvifico di simulacri mitici,

stritolato un tempo anche tu

dall’empia diaspora del corpo dentro l’anima,

Ti resti vergine nella parola melica

L’isola perduta dell’infanzia,

inebriata dal fiume delle zagare

avvolta nell’afrore del basilio.

Già sul tuo etero mare

Che ha ingoiato i tuoi lucenti occhi innamorati,

piovono  le scintille limpide

di una nuova alba. I pesci già balzano

in geometrie d’amore. L’Orsa è tornata

a disegnare nel celeste velo

le sue perfette geometrie di un tempo,

il pescatore con le reti è sul molo

pronto e lieto di ripescare

il senso prezioso  del lavoro,

la gioia perduta della vita.

CARMELO ALIBERTI     (1 ed.2005-  2 ed.2020)

Intervista a Vincenzo Consolo (RAI)

CONSOLO: Mi chiamo Vincenzo Consolo. Sono uno scrittore siciliano, quindi meridionale, emigrato trent’anni fa al Nord, a Milano, quindi appartengo a quella lunga schiera di scrittori, intellettuali e artisti meridionali che hanno lasciato la propria terra e si sono trasferiti al Nord. Magari poi parleremo di questa storia dell’emigrazione intellettuale, dal Sud verso il Nord. Il tema che oggi affronteremo è appunto il tema del Meridione dal punto di vista soprattutto culturale, cioè: Meridione e cultura, che cosa significa questa grande regione d’Italia dal punto di vista culturale, oltre che dal punto di vista sociale e storico. Vediamo ora una scheda filmata. Esiste nelle estreme e più lucenti terre del Sud un mistero nascosto, per la difesa della natura dalla ragione, un genio materno di illimitata potenza, alla cui cura gelosa e perpetua è affidato il sogno in cui dormono quelle popolazioni. Se solo un attimo quella difesa si allentasse, se le voci dolci e fredde della ragione umana potessero penetrare quella natura, essa ne rimarrebbe fulminata. A questa incompatibilità di due forze ugualmente grandi e non affatto conciliabili, come pensano gli utilitaristi, a questa spaventosa quanto segreta difesa di un territorio, la vaga natura coi suoi canti, i suoi dolori, la sua assurda innocenza e non a un accanirsi della storia, che qui è più che altro regolata, sono dovute le condizioni di questa terra e la fine miseranda che vi fa, ogni volta che organizza una spedizione o invia i suoi guastatori più arditi, la ragione dell’uomo. Qui il pensiero non può essere che servo della natura, suo contemplatore in qualsiasi libro o nell’arte. Se appena accenna a qualche sviluppo critico, o manifesta qualche tendenza a correggere la celeste conformazione di queste terre, a vedere nel mare soltanto acqua, nei vulcani altri composti chimici, nell’uomo delle viscere, è ucciso. All’immobilità di queste ragioni sono attribuite altre cause, ma ciò non ha rapporti col vero. È la natura che regola la vita e organizza i dolori di queste regioni. Il disastro economico non ha altra causa. Il moltiplicarsi dei re, dei viceré, la muraglia interminabile dei preti, l’infittirsi delle chiese come dei parchi di divertimento e poi degli squallidi ospedali, delle inerti prigioni, non ha un diverso motivo. È qui, dove si rifugia l’antica natura, già madre di estasi, che la ragione dell’uomo, quanto in essa vi è di pericoloso del Regno dei rei, deve morire.da Cultura e mezzogiorno, intervista a Vincenzo Consolo dell’11 maggio 1999–Enciclopedia Multimediale delle Scienze Filosofiche RAI

La dicotomia tra natura selvatica e l’innesto della cultura dell’uomo, simboleggiata ne “L’ulivo e l’olivastro”

CONSOLO: Ecco, abbiamo visto delle immagini della natura, nel Meridione, commentate dalle bellissime parole di una scrittrice napoletana, Anna Maria Ortese, parole tratte dal libro: “Il mare non bagna Napoli”. È l’eterno dilemma di queste zone del Meridione, fra natura e ragione, fra natura e cultura. Ma è un dilemma antichissimo, che appartiene ai primordi della nostra civiltà, già alla civiltà greca. C’è una immagine molto bella, un simbolo molto bello, nel primo nostro grande romanzo, romanzo mediterraneo e romanzo della civiltà occidentale, che è l’Odissea di Omero, quando Ulisse, dopo la tempesta, approda a Scherìa, nel Regno dei Feaci. Dopo il disastro approda nudo, martoriato dalla tempesta e “si rifugia” – dice il poeta – sotto un albero, che è un ulivo, un ulivo e, insieme, dallo stesso tronco, anche un olivastro. Gli interpreti di questo simbolo omerico hanno sempre giustamente interpretato come la dicotomia, il contrasto fra quella che è la natura selvatica e quello che è l’innesto culturale dell’uomo nella natura. La natura a volte può essere serena, può essere idilliaca e può captare e addormentare in questa sua serenità. È la natura dei poeti bucolici, dei poeti idilliaci. Ma c’è una natura anche violenta, c’è la natura che distrugge l’uomo, c’è la natura dei vulcani, la natura dei terremoti, la natura delle alluvioni. E quindi l’uomo con la sua cultura, deve intervenire per correggere questa violenza della natura, guardarsi dalla seduzione della natura da una parte e poi, correggere, attraverso la cultura, la tecnica, perché l’ulivo non è altro che il frutto di un innesto. È una invenzione agricola quella dell’innesto dell’ulivo, che è poi l’albero del nostro Meridione. da Cultura e mezzogiorno, intervista a Vincenzo Consolo dell’11 maggio 1999 dall’Enciclopedia Multimediale delle Scienze Filosofiche RAI

STUDENTESSA: Lei ha parlato di correzione nella natura. Perché l’uomo non può proteggersi semplicemente allontanandosi da quelle che sono le zone a rischio, invece di modificare ciò che è naturale, il mondo che gli è stato dato?

CONSOLO: Le eruzioni dei vulcani sono difficili da correggere. Quando il vulcano si sveglia, come è successo al Vesuvio con la tragedia di Pompei – va bene, allora non c’era la tecnica di adesso – vengono sepolte dalla lava e dai lapilli intere città. Molti dei villaggi dell’Etna sono stati distrutti e poi ricostruiti. È difficile correggere la natura violenta, correggere una tempesta, correggere un’alluvione. Oggi la tecnologia ha fatto dei passi avanti. L’ultima eruzione dell’Etna, per esempio, è stata corretta da una persona straordinaria, che è Barbieri della protezione civile – che oggi si trova nel Kosovo – cercando di deviare il flusso della lava, per salvare dei paesini delle falde dell’Etna, buttando con gli aeroplani dei blocchi di cemento e facendo deviare questa lava. L’uomo può intervenire, può correggere. Ma molto spesso questa natura, più che corretta, nel nostro Meridione soprattutto, è stata violentata, è stata disastrata dalle varie speculazioni.

da Cultura e mezzogiorno, intervista a Vincenzo Consolo dell’11 maggio 1999 dall’Enciclopedia Multimediale delle Scienze Filosofiche RAI

IL SIMBOLO  DELLA LUMACA

STUDENTESSA: Abbiamo letto una citazione dal Suo libro, “Il sorriso dell’ignoto marinaio”, in cui Lei fa una similitudine tra il potere borbonico e una lumaca. Volevamo sapere il senso di questa similitudine.

CONSOLO: Sì, la lumaca è un simbolo che ho preso dagli studi sulle lumache del protagonista del mio romanzo, il barone di Mandralisca. Voi sapete che il guscio della lumaca ha un andamento a spirale. Ora la spirale è un segno molto antico. Rappresenta appunto questa ascensione dal basso verso l’alto, oppure può significare anche lo sprofondare e il perdersi, perdersi all’apice di questa stessa spirale. Ed è anche il simbolo, per studiosi di etnologia e di storia delle religioni, è anche il simbolo del labirinto. Ecco, dal labirinto, con intelligenza, si può uscire, oppure si può rimanere prigionieri. Ecco, quel simbolo io l’ho preso come il simbolo della storia, per cui i popoli, le popolazioni che si trovano in una infelicità sociale, possono rimanere prigionieri dentro questo labirinto a forma di spirale, oppure, seguendo il labirinto, possono uscire verso la realtà della storia e prendere consapevolezza della loro condizione sociale. Ecco, è questo il simbolo della lumaca.

da Cultura e mezzogiorno, intervista a Vincenzo Consolo dell’11 maggio 1999 dall’Enciclopedia Multimediale delle Scienze Filosofiche RAI

STUDENTE: Quindi nel Meridione la cultura si dovrebbe staccare-dalla-religione?

CONSOLO: Non credo che si debba staccare. La religione è una grande tradizione culturale. Lo vediamo nelle feste religiose e in tante altre manifestazioni della religione. Il rischio è che la religione diventi superstizione. Superstizione significa annullamento di quella che la Ortese chiama: “la ragione”. Ecco la religione dev’essere qualcosa di veramente scoperto, di veramente sentito, che non ha bisogno di orpelli, che non ha bisogno di iconografie eclatanti per essere vissuta. La religione è un fatto che si vive all’interno della nostra coscienza, della nostra mentalità. Io credo che ogni religione sia valida, non solo quella cristiano-cattolica, ma le religioni del mondo, perché le religioni sono quelle culture che insegnano ad avere rispetto dell’uomo, innanzi tutto come immagine di Dio. Almeno tutte queste religioni, tutte le religioni suggeriscono questo concetto: l’abolizione della violenza e il rispetto dell’altro individuo, dell’altro che è fuori di noi. La religione insegna di rispettare l’uomo come immagine di Dio.

da Cultura e mezzogiorno, intervista a Vincenzo Consolo dell’11 maggio 1999 dall’Enciclopedia Multimediale delle Scienze Filosofiche RAI

STUDENTE: Quindi la religione nel Sud non ha frenato la cultura?

CONSOLO: In certe forme deteriorate, quando la religione diventa inganno, quando la religione diventa “sonno della ragione”, come dicevano gli illuministi francesi, allora è stata una remora. Però la religione nel Meridione è stata anche educazione delle popolazioni. Non esistevano le scuole, le scuole erano le Parrocchie. Lì veramente l’individuo imparava che cosa era, non solo i beni materiali, questo affanno della conquista dei beni materiali, ma era anche un’educazione dello spirito, un’educazione alla fraternità e, come dicevo prima, alla consapevolezza che ogni individuo è una creatura di Dio e quindi deve essere rispettato e, come dice la religione cristiana, deve essere anche amato.

da Cultura e mezzogiorno, intervista a Vincenzo Consolo dell’11 maggio 1999 dall’Enciclopedia Multimediale delle Scienze Filosofiche RAI

STUDENTESSA: Abbiamo portato come contributo “Mastro Don Gesualdo” di Verga, perché abbiamo pensato che Verga sia una figura emblematica di intellettuale del Sud. Ora Lei cosa pensa della figura dell’intellettuale del Sud, in quanto lei stesso rappresenta oggi l’intellettuale?

CONSOLO: Vorrei narrarVi brevemente la storia umana e letteraria di questo scrittore. Giovanni Verga è stato forse uno dei primi intellettuali meridionali che ha lasciato la propria terra ed è emigrato prima a Firenze e poi a Milano. C’è stato sempre, da Verga in poi, una sorta di assillo, da parte degli intellettuali meridionali, proprio perché si sentivano di abitare una periferia, di raggiungere il centro. Il centro, al tempo di Verga, parliamo della fine dell’Ottocento, era innanzi tutto Firenze, che era il centro della lingua, della cultura, Firenze del Rinascimento, Firenze dei grandi scrittori toscani. Il suo primo approdo è stato proprio Firenze. Poi da Firenze si è spostato a Milano, dove incominciava quella che si chiama “l’industria culturale”, cioè incominciavano ad aprirsi le prime case editrici. E quindi questo spostamento Verga lo ritenne necessario. Lui arrivò a Milano nel 1872, pensando di trovare una città immobile nei suoi riti e nei suoi gesti, con i salotti delle varie contesse, che ricevevano gli scrittori, con questi riti mondani. Verga, sino a quel momento, aveva scritto dei romanzi, che vengono connotati appunto come “romanzi mondani”. Ecco, lì si trova in una città in grande subbuglio. Milano allora aveva la Prima Rivoluzione Industriale. Quindi c’era un processo di inurbamento, dalla periferia, dalle campagne, a Milano si aprivano le prime fabbriche. Soprattutto la fabbrica della Pirelli, che lavorava la guttaperga, come si diceva, la gomma. E con questa prima industrializzazione lombarda incominciarono i primi conflitti sociali, tra il “padrone” e il lavoratore. I lavoratori chiedevano i diritti. Verga si trovò di fronte a questo mondo in subbuglio che non riusciva a capire, perché aveva una memoria contadina e quindi concepì quella sua rivoluzione stilistica, quel “salto di genio”, come lo chiamò De Benedetti, che lo portò alla sua seconda stagione letteraria, che era la stagione del verismo, da cui poi incominciarono le prime novelle: Nedda, per passare poi a I Malavoglia e quindi a Mastro Don Gesualdo. E immagina una concezione dell’uomo immutabile, dove la storia non può intervenire, perché l’uomo è condannato dal Fato, dal destino e non può fare niente per modificare questo suo destino.

Postato mercoledì, 25 gennaio 2012 alle 19:45 da Cultura e mezzogiorno, intervista a Vincenzo Consolo dell’11 maggio 1999 dall’Enciclopedia Multimediale delle Scienze Filosofiche RAI

STUDENTESSA: Non pensa che questo rapporto di violenza e anche di simbiosi con la natura, non abbia portato qualcosa in più alla cultura dell’uomo meridionale, cultura intesa come atteggiamento culturale dell’uomo? Lei non pensa che questo abbia dato qualche cosa in più allo sviluppo dell’intellettuale meridionale?

CONSOLO: Certo, ha portato a questa organizzazione sociale del nostro Meridione, soprattutto dei piccoli villaggi, dei paesi, a una grande comunicazione, a un grande scambio culturale, soprattutto a quella che era la cultura della tradizione, i racconti che si facevano di vicende locali. E quindi questo era un arricchimento. D’altra parte questa è una ricchezza di tipo mediterraneo: il racconto orale, che si tramanda da una generazione all’altra, di vicende, di fatti importanti, ma anche di fatti minimi e quindi un maggior accumulo di memoria nelle popolazioni meridionali, soprattutto negli intellettuali. Gli intellettuali sono quelli che memorizzando poi attingono a questo prezioso patrimonio, che è la memoria, per cercare di interpretare e di esprimere il mondo. Io credo che tutti gli scrittori – meridionali soprattutto – abbiano avuto questa grande ricchezza memoriale, da Verga, di cui parlavamo poco fa, a Pirandello, a tutti gli scrittori, ad Anna Maria Ortese, ai grandi scrittori napoletani, calabresi, pugliesi. Forse è dovuto al clima, alla nostra tradizione, alla nostra mediterraneità, c’è un maggiore scambio, perché nel Meridione esiste la piazza. Ecco, la piazza che è l’antica agorà greca, dove la gente si riuniva per raccontare, per dare giudizi sulle cose, soprattutto sulla vita pubblica, su quella che era la vita sociale. E questo significa uscire fuori dalla solitudine, uscire fuori dal monologo e arrivare al dialogo, che è quello che stiamo facendo noi oggi qui. Ecco, il dialogo è una cosa importante, confrontare i giudizi, le opinioni, il pensiero. Questa è una ricchezza enorme, che oggi nel mondo, che chiamano “globalizzato”, in questo mondo in cui la vita dell’uomo si è verticalizzata, nel senso che ormai viviamo in queste nostre case alte, ognuno chiuso nel proprio appartamento, a guardare soltanto quello che le immagini ci vogliono dare e ci restituiscono, si è perso il senso della comunicazione orizzontale, cioè il senso della piazza. Però nel Meridione tutto questo resiste ancora. E credo che sia una grande risorsa per le zone meridionali.

Postato mercoledì, 25 gennaio 2012 alle 19:46 da Cultura e mezzogiorno, intervista a Vincenzo Consolo dell’11 maggio 1999 dall’Enciclopedia Multimediale delle Scienze Filosofiche RAI

STUDENTESSA: Quindi pensa che il Meridione sia una specie di Grecia antica ancora viva? Cioè che questo enorme patrimonio culturale che ci hanno lasciato gli antichi sia ancora vivo nel Meridione?

CONSOLO: Sì, dobbiamo cercare di non mitizzare, ma c’è ancora questa dimensione di cui parlavo, della piazza, del dialogo, del confronto, quando non è ucciso da quelli che sono i messaggi dei media. I messaggi dei media che cercano di darci una realtà così com’è. È scelta da loro, non è scelta da noi, è una realtà appunto mediata, non originale. Però, in confronto a quelle che sono le zone nordiche, dove la possibilità di stare fuori nella piazza è minore, da noi, questo che tu chiami “retaggio greco”, forse c’è ancora, esiste, quando poi non traligna e non diventa aggressione, non diventa violenza.

Postato mercoledì, 25 gennaio 2012 alle 19:47 da Cultura e mezzogiorno, intervista a Vincenzo Consolo dell’11 maggio 1999 dall’Enciclopedia Multimediale delle Scienze Filosofiche RAI

STUDENTE: Quanto conta, secondo Lei, la produzione culturale degli intellettuali a contribuire al risanamento di quella che è la condizione sociale ed economica del Meridione?

CONSOLO: Potrebbe contribuire molto. Io ricordo un grande intellettuale, Gaetano Salvemini, pugliese, di Molfetta, che ha delle pagine violente nei confronti degli intellettuali meridionali. Li chiama: “piccolo-borghesi”. Soprattutto dell’Università di Napoli, lui è dell’Università di Messina, di cui aveva fatto esperienza. Ecco, dice che questi intellettuali “piccolo-borghesi”, molto spesso, sono diventati “amorali e cinici”, cioè hanno la possibilità di studiare, di diventare classe dirigente e poi tradiscono quello che è la loro matrice, la matrice popolare fanno da anello di congiunzione, da mediatori, fra quelli che detengono il potere, i padroni e quelle che sono le classi popolari. Fanno da mediatori e tradiscono le istanze storiche delle classi meridionali. Naturalmente Salvemini parlava della fine dell’Ottocento. È morto nel ‘57 e quindi la sua esperienza risale a quegli anni. Però le colpe dei problemi meridionali sono da attribuire, anche alla prevalenza economica del Nord, ma sono da attribuire soprattutto al compromesso e al trasformismo degli intellettuali meridionali.

Postato mercoledì, 25 gennaio 2012 alle 19:48 da Cultura e mezzogiorno, intervista a Vincenzo Consolo dell’11 maggio 1999 dall’Enciclopedia Multimediale delle Scienze Filosofiche RAI

STUDENTESSA: Al Sud esiste concretamente la possibilità di fare cultura senza dover emigrare altrove?

CONSOLO: Credo che adesso non sia più necessario emigrare. Credo anzi che contrariamente al periodo in cui io sono andato via, oggi l’intellettuale nel Meridione possa riscoprire dei valori – e anche delle possibilità – che altrove non esistono. Altrove c’è la cosiddetta industria culturale, ci sono i grandi giornali, ci sono le grandi case editrici che purtroppo oggi tendono a omologare tutto, a produrre quella cultura che è soltanto all’insegna del profitto e del messaggio pubblicitario. Qui ancora, dove lo scrittore, il cantante, l’uomo di teatro non ha, diciamo, queste mete dell’assoluto profitto, perché non ci sono le grandi concentrazioni dell’industria culturale, qui l’intellettuale può ancora avere possibilità di riscoprire quella che è la cultura meridionale. Per esempio a Napoli c’è una grande rinascita del teatro e del cinema napoletano. Ecco, in campo letterario il discorso è un po’ diverso perché tutti ormai tendiamo a ubbidire a quelli che sono i messaggi che l’industria ci impone. Naturalmente ci sono ancora degli scrittori che disobbediscono a queste leggi non scritte, ma molto impositive e molto dure. Ma ripeto, in campo cinematografico e in campo teatrale, ci sono delle nuove forze, molto vivaci, che agiscono qui, nel Meridione. Parlo di Napoli, ma potrei parlare anche di Palermo. C’è un nuovo teatro, un nuovo cinema, c’è anche una nuova letteratura, che stanno nascendo, molto vivaci e molto interessanti.

Postato mercoledì, 25 gennaio 2012 alle 19:49 da Cultura e mezzogiorno, intervista a Vincenzo Consolo dell’11 maggio 1999 dall’Enciclopedia Multimediale delle Scienze Filosofiche RAI

STUDENTESSA: Sciascia si poneva il problema della mafia, se questa si affermava nel momento in cui lo Stato era assente e veniva meno alle sue funzioni. Secondo Lei, le organizzazioni mafiose dove si sviluppano e quando?

CONSOLO: Si sviluppano nel “vuoto dello Stato”, come diceva appunto Sciascia. Sciascia era un grande illuminista, apparteneva veramente a quella schiera dei grandi illuministi meridionali, da Croce a Salvemini e a tantissimi altri. A un certo punto, dopo aver scritto Il Consiglio d’Egitto, che era proprio un romanzo sull’Illuminismo e sul giacobinismo meridionale, siciliano, allora capì che il problema più impellente per la Sicilia era proprio il problema della mafia. E in tutti i suoi romanzi cercò di indagare quelle che erano i rapporti della classe politica con i mafiosi, che era il male atavico della Sicilia, questo del “vuoto dello Stato” e del connubio fra quelle che erano le istituzioni dello Stato con questa piaga siciliana che si chiama “mafia”. Oggi questa mafia non ha più i confini dell’isola. Purtroppo è uscita fuori da questi confini ed è straripata da per tutto. Sappiamo che è emigrata in America e in altre parti del mondo. Oggi si parla di “mafia russa”, si parla di altri tipi di mafia.

Postato mercoledì, 25 gennaio 2012 alle 19:49 da Cultura e mezzogiorno, intervista a Vincenzo Consolo dell’11 maggio 1999 dall’Enciclopedia Multimediale delle Scienze Filosofiche RAI

STUDENTESSA: Gli eventi che si sono susseguiti nel Mezzogiorno hanno favorito una cultura che è particolare e che è tipica proprio del Mezzogiorno. È possibile che in questo campo il Mezzogiorno sia superiore rispetto a tutte le altre culture?

CONSOLO: Non bisogna mai parlare di superiorità e inferiorità. Bisogna, credo, parlare di diversa cultura. Anche nelle culture più arcaiche, più tribali, ci sono delle ricchezze che noi non sospettiamo. Penso alle culture del Centro-Africa, per esempio. Loro hanno una cultura rispettabilissima. Mi ricordo che tempo fa morì un grande intellettuale africano e un premio Nobel disse che quando muore uno di questi uomini è come se si bruciasse un’intera biblioteca, perché lì, naturalmente, non esistono i libri, non esistono le biblioteche o le case editrici, ma c’è questa grande cultura orale che viene trasmessa da una generazione all’altra. Quindi la morte di un uomo così significa appunto la distruzione di una cultura se non viene tramandata, se questa cultura si interrompe. Quindi noi non possiamo sentirci superiori agli abitanti dell’Uganda, per esempio, o di qualsiasi altro popolo che a noi sembra arretrato, perché la cultura e la civiltà non è lo sviluppo economico, lo sviluppo tecnologico. La cultura è qualcosa che riguarda l’individuo, non la tecnologia, quella che Pasolini chiamava, parlando dell’Italia: “lo sviluppo senza progresso”.

Postato mercoledì, 25 gennaio 2012 alle 19:51 da Cultura e mezzogiorno, intervista a Vincenzo Consolo dell’11 maggio 1999 dall’Enciclopedia Multimediale delle Scienze Filosofiche RAI

STUDENTESSA: Il degrado economico e sociale in cui si trova il Meridione, può avere influito sulla creazione del degrado culturale? E, se sì, in che modo?

CONSOLO: Senz’altro. Il degrado economico che ha delle ragioni, ma anche delle responsabilità ben precise. Si è puntato – parlo dal secondo dopoguerra in qua, dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, dalla caduta del fascismo, non parliamo dei disastri che erano avvenuti prima, dall’Unità d’Italia in poi – soltanto a una unidimensionalità. È quella unidimensionalità a cui il mondo va oggi incontro, a quella che si chiama la “globalizzazione”, dove l’unica direttiva è soltanto l’economia. Ma l’uomo non è fatto di economia. L’uomo è fatto di tanti altri valori che non sono quelli materiali. E allora noi progrediamo, cioè in questo mondo globalizzato si progredisce economicamente, ma si perde di interiorità. E quindi diventa una spirale senza fine. L’uomo cerca di consumare soltanto i beni e non pensa a riempire quella che è l’interiorità. L’interiorità – lo spirito – si riempie con la cultura, con quelli che sono i valori spirituali. Ecco, questo lo diceva un filosofo spagnolo, Fernando Savater, che si è occupato molto anche di educazione dei giovani. Diceva appunto che l’alienazione di oggi sta proprio nel consumismo, nel cercare continuamente dei beni e dei beni nuovi da consumare – la macchina nuova, la casa nuova, il frigorifero nuovo – e svuotandoci di quella che è la ricchezza interiore, cioè la cultura e i valori umani. Questa oggi è la dimensione, purtroppo, di tutto il mondo, questa dimensione soltanto economica. Dovremmo riscoprire questi valori di cui ci stiamo impoverendo a poco a poco.

Postato mercoledì, 25 gennaio 2012 alle 19:52 da Cultura e mezzogiorno, intervista a Vincenzo Consolo dell’11 maggio 1999 dall’Enciclopedia Multimediale delle Scienze Filosofiche RAI

STUDENTESSA: Le strutture economiche, politiche e sociali sono legate all’immaginario, quindi alla cultura. Ma sono queste strutture che fanno le idee, o viceversa, sono le idee a fare queste strutture?

CONSOLO: Dobbiamo essere noi a immaginare che cosa dobbiamo fare, che cosa dobbiamo costruire. Quindi è un’espressione della nostra cultura e del nostro spirito. Non deve essere una cosa che ci viene imposta, che ci viene proposta come un oggetto assolutamente necessario e indispensabile, se non è ideato e pensato da noi. Sono le idee che creano le cose, il che significa avere un atteggiamento attivo nei confronti dell’oggettualità, questo è il significato della libertà dell’uomo.

Postato mercoledì, 25 gennaio 2012 alle 19:52 da Cultura e mezzogiorno, intervista a Vincenzo Consolo dell’11 maggio 1999 dall’Enciclopedia Multimediale delle Scienze Filosofiche RAI

STUDENTESSA: Quindi l’economia del Mezzogiorno non ha avuto poi una forte influenza sulla cultura del Mezzogiorno?

CONSOLO: Sì, non ha avuto una forte influenza perché è stata un’economia bloccata, per delle ragioni precise. Per quanto riguarda il Meridione, per esempio, è stata una grande sciagura – lo dice anche Croce – la persistenza del latifondo. Vi potrei parlare del latifondo siciliano. Era un’ingiustizia sociale e storica, che è durata nei secoli, per volere di quelli che erano i poteri, prima il potere spagnolo e poi il potere borbonico, per la prepotenza di quelli che erano i baroni, i latifondisti, di questi baroni anarchici che ricattavano il potere dei re, dei viceré e che cercavano di mantenere immobili queste nostre zone e contrade. Con quello che significa il latifondo per sfruttamento dell’uomo, umiliazione dell’uomo e anche il depauperamento di quello che era il patrimonio agricolo delle nostre zone. I terreni lasciati incolti o sfruttati sino all’inverosimile sono dei problemi di cui tutti i meridionalisti si sono occupati.

Postato mercoledì, 25 gennaio 2012 alle 19:53 da Cultura e mezzogiorno, intervista a Vincenzo Consolo dell’11 maggio 1999 dall’Enciclopedia Multimediale delle Scienze Filosofiche RAI

STUDENTE: In che modo il susseguirsi di governi stranieri, delle dominazioni, ha influito sulla cultura? Anche il governo dei Savoia si può dire che sia stato un governo straniero. In che modo poi ha influito sulla cultura del Meridione? Per esempio, ci sono anche delle testimonianze che i Savoia hanno chiuso molte scuole pubbliche nel Meridione, nei vari paesi del Sud.

CONSOLO: Sì, anche i Savoia erano degli stranieri, come i Borboni, come i Castigliani o come gli Aragonesi e tutte le dinastie che abbiamo avute nel nostro Meridione. Croce indica un momento felice del Meridione soltanto nella monarchia angioina. Dice che è stato un momento veramente glorioso della cultura meridionale, il Regno di Napoli, nel momento in cui qui si erano varate delle leggi che, per quell’epoca, per l’Alto Medioevo, erano delle regole che ancora in Europa non esistevano, cioè il suffragio delle popolazioni, ma anche il rispetto della vita umana,. A Napoli poi c’è stata, dopo il cambio di questo potere, di questo Regno, proprio per queste leggi che erano ormai entrate nella cultura e nella mentalità del popolo, c’è stata una ribellione perché a Napoli non si voleva il Tribunale dell’Inquisizione. Croce per esempio, giudicò i Vespri Siciliani una grande iattura, quella che negli storici dell’Ottocento era considerato come una ribellione di popolo alla ricerca della libertà, soprattutto degli stori

ci romantici dell’Ottocento. I Vespri Siciliani hanno tolto il Regno di Sicilia ai Francesi e l’hanno consegnato agli Spagnoli. Gli Spagnoli poi hanno portato tutti i mali possibili, confermando quelli che erano i privilegi dei baroni, dei feudatari, portando il Tribunale dell’Inquisizione in Sicilia, ma non solo in Sicilia, anche nelle zone meridionali, come la Puglia e la Calabria. E quindi c’è stato un momento di grande progresso in queste regioni, che poi purtroppo si è arrestato. Si è arrestato ed è durato secoli questo regresso del Meridione, per cui, poi, è nato quel problema che noi chiamiamo meridionale. Io Vi posso raccontare un aneddoto di quello che era la mentalità dei signori, dei feudatari del luogo. Questo aneddoto me lo ha raccontato un pronipote di Garibaldi. Io sono tanto vecchio, che ho fatto in tempo a conoscere un pronipote di Garibaldi. Si chiamava Canzio Garibaldi ed era Direttore del Museo del Risorgimento di Milano. Mi raccontava che lui, la madre e i suoi fratelli erano stati ospiti di una baronessa calabrese. Erano venuti in questo castello della baronessa calabrese e la madre di Canzio Garibaldi si accorse che tutti i bambini del paese soffrivano di tracoma, avevano questa malattia infettiva agli occhi, che era allora un male di cui soffriva tutto il Meridione. Questa signora incominciò a curare i bambini, a pulire gli occhi di questi bambini. E la baronessa quando si accorse di questa attività della signora Garibaldi, le fece capire che non erano più ospiti graditi nel suo castello. Quindi dovettero fare le valigie e andarsene. Per dirVi che cos’era la mentalità di questi feudatari nel nostro Meridione di allora. Cioè volevano tenere le popolazioni in quel disagio, non solo di malattia, ma anche di ignoranza. Non volevano ammettere che ci fosse la scuola d’obbligo, per esempio. Ci sono stati molti che si opponevano all’istituzione della scuola dell’obbligo. E questo è durato anche con l’Unità d’Italia e con i Savoia.

Postato mercoledì, 25 gennaio 2012 alle 19:53 da Cultura e mezzogiorno, intervista a Vincenzo Consolo dell’11 maggio 1999 dall’Enciclopedia Multimediale delle Scienze Filosofiche RAI

STUDENTE: Solamente qualche altro governo straniero potrà migliorare le condizioni del Sud, qualche altro governo potrà aiutare a migliorare le condizioni dei tracoma negli altri bambini nel Sud?

CONSOLO: Per fortuna non c’è più il tracoma e i governi stranieri non ci servono più. Siamo noi che dobbiamo formare i governi, siamo noi, scegliendo gli uomini e capendo chi bisogna mandare in questo Parlamento che dirige le nostre sorti, non solo i Comuni e le Regioni, quelle che sono le amministrazioni locali, ma anche le amministrazioni centrali. Dobbiamo capire noi quali sono gli intellettuali, perché i politici, come diceva Gramsci, sono degli intellettuali, sono quelli che mettono in atto le filosofie, le idee. Se sono dei “piccoli-borghesi, cinici e immoralisti”, come diceva Salvemini, o se sono delle persone probe che vogliono veramente il bene del paese.

Postato mercoledì, 25 gennaio 2012 alle 19:54 da Cultura e mezzogiorno, intervista a Vincenzo Consolo dell’11 maggio 1999 dall’Enciclopedia Multimediale delle Scienze Filosofiche RAI

STUDENTESSA: Prima si è parlato della mercificazione dell’arte e quindi della prostituzione di molti intellettuali. Oggi l’intellettuale che non vuole obbedire alle leggi di mercato, ha la possibilità di esprimersi, o viene tagliato fuori?

CONSOLO: Noi oggi viviamo in democrazia, non siamo più nel periodo delle dittature dei fascismi, per fortuna, qui nel nostro paese, in Italia. E quindi ognuno ha la libertà di esprimersi in qualsiasi modo, artisticamente, ideologicamente. C’era la famosa frase – una frase terribile – di Mussolini, riferita a Gramsci: “Questo cervello non deve più funzionare”. E Gramsci l’hanno fatto morire in carcere. Ecco questo, per nostra fortuna, dopo la Guerra di Liberazione, dopo la conquista della libertà, non capita più. Però vi sono delle dittature molto più sottili, invisibili, che sono le dittature economiche, i patronati, quelli che detengono in mano le leve della produzione culturale. Non sto qui a dilungarmi. Sono i proprietari dei giornali, delle Case Editrici, delle Gallerie d’Arte. Loro decidono che cosa veicolare e che cosa lasciare ai margini. Soprattutto oggi con la rivoluzione dei mezzi di comunicazione di massa, qualsiasi voce, se non è supportata da questi mezzi di comunicazione di massa, può essere seppellita e ignorata. Oggi allo scrittore, all’artista, si richiede il presenzialismo, la ribalta. E guai chi non calca queste ribalte, perché non ha esistenza, viene ignorato! A volte, poi, possono succedere delle cose straordinarie, malgrado l’essere appartato. Come è successo, per esempio, ad Anna Maria Ortese. Anna Maria Ortese era una scrittrice molto rigorosa con se stessa e con gli altri, che ha vissuto una vita appartata e, malgrado questo, era una scrittrice che ha avuto molto eco, è stata letta da molti lettori.

Postato mercoledì, 25 gennaio 2012 alle 19:54 da Cultura e mezzogiorno, intervista a Vincenzo Consolo dell’11 maggio 1999 dall’Enciclopedia Multimediale delle Scienze Filosofiche RAI

STUDENTE: Pino Daniele è il tema della ricerca che abbiamo fatto su Internet. Pino Daniele rappresenta un po’ la figura del musicista napoletano che ha rilanciato la musica napoletana in tutta l’Italia. Come la cultura musicale, può anche il patrimonio culturale del Mezzogiorno uscire oltre i propri confini?

CONSOLO: Credo di sì, soprattutto la musica che è un linguaggio universale e quindi ha una maggiore possibilità di diffondersi, di uscire fuori dai confini, se è una musica vera, che interpreta quelli che sono i sentimenti degli uomini. Credo che la musica sia la prima delle arti. C’è stato Kant che ha fatto una classificazione delle arti e ha detto che: “le arti sono tanto più arte, quanto meno materia hanno”. E allora partiva dalla musica, poi la poesia. Ecco la musica è puro suono, poi la poesia, che è parola e poi la pittura, la scultura. Secondo Kant, quanta più materia c’era nell’espressione artistica, tanto meno arte c’era. Ma io credo che queste classificazioni non si possono fare. È certo che la musica ha un linguaggio universale, quindi è quella che ha maggiore diffusione.